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Immagine del redattoreIgor Gribaldo

Neil Gaiman, Stephen King e quell'irrefrenabile voglia di raccontare storie.



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Non avendo sostanzialmente concluso ancora un cazzo con la scrittura, il seguente testo potrà sembrare un po’ pretenzioso.

La mia speranza è che chiunque si prenderà del tempo per leggere questa Confessione non veda dell’arroganza nelle mie parole ma, anzi, veda pura gratitudine verso ciò che sono stati gli anni della sua formazione.

Si tratta per lo più di una serie di piccoli (e all’apparenza insignificanti) episodi della mia vita che credo abbiano formato la mia ossessione per i racconti, più una riflessione personale sul mio modo di stare al mondo.

Ho volutamente evitato alcuni episodi altrettanto importanti, forse perché troppo intimi forse perché sento di doverli tenere da parte per una prossima Confessione, non so.


La cosa che conta, comunque, è che vi porti a pensare:

Grazie alle memorie dei miei genitori e ai filmini della mia infanzia ho sempre saputo che i libri sono stati oggetti che mi hanno incuriosito e affascinato. In un modo o nell’altro sono sempre stato circondato da loro fin dalla nascita.

Come ben sapete, rifletto ormai da tempo sull'importanza di raccontare storie, sull'importanza di scrivere, sull'importanza della memoria e dei libri.

L'idea di riportare una parola su un foglio di carta o un foglio digitale in questo esatto istante (sabato 6 agosto 2022, ore 13:21) e sapere che potrà poi essere letta, potenzialmente, il prossimo anno, tra una decina di anni o addirittura tra un secolo e ricreare nella mente le stesse immagini o riflessioni a cui sto pensando ora (balzando completamente la legge fisica del tempo e dello spazio) è qualcosa di magico.

Stephen King esplica in modo ammaliante questa immortalità della scrittura nel suo saggio On writing. Autobiografia di un mestiere (Sperling & Kupfer, p. 334, 9,90 €).

Una cosa che ho realizzato durante la stesura di questa Confessione è che l’amore per le storie era insito nella mia famiglia e nella famiglia dei miei vicini di casa (che visitavo spesso, soprattutto d’estate per giocare con la mia migliore amica) in un modo che potrei definire SACRO.

Da bambino ovviamente non avevo una visione chiara di quanto questa cosa mi avrebbe formato. Per me era normale che alle 21 tutte le persone si fermassero per vedere un qualche film oppure un episodio di una serie tv in televisione. Era un momento inviolabile.

Presi ancora più coscienza di questa cosa quando film come Il Signore degli Anelli e Harry Potter o serie tv come Lost o Smallville diventavano importanti casi di discussione tra noi bambini delle elementari.

Non erano cose che esistevano, erano storie di fantasia, eppure le persone agivano o pensavano diversamente in base a quello che accadeva in quelle storie inventate. Spesso mi dicevo “un momento, queste cose finte sono state create dal nulla da qualcuno. E con queste cose finte le persone si emozionano, ne parlano quasi come se fossero accadute per davvero. Geronimo Stilton mi ha portato nel Regno della Fantasia in cui tutto può accadere. Questo significa che se porto alla realtà qualcosa che esiste solo nella mia fantasia, può diventare un caso di discussione tra i miei amici, quasi come se fosse una cosa veramente accaduta.”

Il mio mito durante il periodo delle scuole elementari, oltre ad Alessandro Del Piero, era il regista Peter Jackson. Una persona che aveva creato un patrimonio e un’eredità creativa grazie alla sua fantasia.

Collegando i puntini, e crescendo, mi resi conto che qualcosa nel profondo della mia anima si muoveva ogni qual volta si trattava di creare giochi o scenari in cui immergersi con gli amici.

“Scontato, è una cosa che sono in grado di fare tutti i bambini” direte voi.

Ma sono certo che in quelli dotati di una maggiore creatività, la fantasia sia in grado di dare un brivido differente. Più profondo, più importante. Salutare. Vitale e viscerale.


La prima volta che provai a scrivere qualcosa fu nei primi anni delle elementari, ispirato dalle storie di Geronimo Stilton, Piccoli Brividi e Scooby Doo. Si trattava per lo più di racconti di una sola pagina.

Dapprima scritti a mano e poi, con l'acquisto del primo portatile, riportati a PC.

Ricordo una volta in particolare in cui la maestra di Italiano mi aveva permesso di leggere ad alta voce il mio racconto in classe. Per rendermi il più "presentabile" possibile avevo scritto a computer e stampato il racconto, per poi ornarlo di alcuni piccoli disegni.

Non so di cosa parlasse, non ricordo nemmeno che tipo di accoglienza i miei compagni mi riservarono ma non è questo l'importante, la cosa importante era il fatto che dandomi quella opportunità la maestra mi aveva concesso per un paio di minuti il suo megafono (come direbbe George Saunders) e il brivido che mi aveva procurato la possibilità di poter essere io a capo dell'immaginazione collettiva della classe per qualche istante, era stato qualcosa di unico e mai provato prima. La mia mente aveva seminato un frutto che sarebbe cresciuto e fiorito solo molto tempo dopo.

Concepii il tutto come se la mia fantasia potesse fare nel suo piccolo ciò quello che la fantasia di Peter Jackson aveva fatto con Il Signore degli Anelli.

Nei successivi anni di formazione scolastica passai attraverso numerose idee su come avrei voluto proseguire il mio percorso di studi (l'idea di voler entrare in polizia, o di fare il regista, o magari l'oculista) ma ci fu una costante che rimase per tutto quel periodo: l'idea unica, affascinante e romantica di voler diventare scrittore.

Questa idea fu presa parecchie volte a botte: alle scuole medie andavo malissimo in quasi tutte le materie, i professori e le persone a me vicine mettevano in chiaro che non si può credere di poter vivere solamente facendo lo scrittore, soprattutto se si va male a scuola. Si tratta di un terno al lotto peggio di voler sognare di fare l'atleta. Non c'è un percorso di studi apposito che ti garantisce di diventare quella figura, la maggior parte degli scrittori avevano un lavoro principale molto più remunerativo mentre scrivevano il loro primo capolavoro.

Abbattuto dagli scarsi risultati scolastici e da tutti questi suggerimenti, sul finire delle medie mi ritrovai dunque di fronte a un bivio: scuola professionale o Liceo Scientifico?

Nella mia concezione del mondo ero certo che andando al professionale avrei abbandonato qualunque tipo di velleità narrativa. Con lo Scientifico invece mi sarei complicato non poco la vita ma avrei potuto continuare a dare un minimo di credito al sogno della scrittura.


Grazie ai miei genitori scelsi il Liceo Scientifico e al secondo anno, con una prepotente botta di culo, conobbi una professoressa di Italiano e l'allora traduttore di Stephen King che mi fecero ricredere nelle mie capacità di narratore e nel gusto unico della scrittura.

Il metodo d'insegnamento della professoressa comprendeva in larga parte l'utilizzo della creatività degli studenti. Inventarsi poesie e racconti, oltre al saper scrivere un buon saggio argomentativo, era un esercizio utile non solo a coloro che frequentavano il mondo umanistico ma bensì a qualunque tipo di percorso di studi.

Non sarò mai abbastanza grato a questa professoressa, perché grazie a lei riacquisì fiducia nei miei mezzi di cantastorie, rivalutai l'idea dello scrittore, introdussi letture di generi differenti rispetto a quelle a cui ero abituato.

Il traduttore e scrittore mi rivelò invece che con la giusta quantità di talento, sacrificio e fiducia in se stessi la scrittura poteva diventare una professione parecchio remunerativa. Non come mi era stato mostrato in precedenza.

Oltre a loro si aggiunse anche il professore d'Inglese che ci diede stimoli cinefili, ci spinse a cercare un cinema diverso da quello pensato per la massa. Ci spinse a cercare pellicole che ci ponevano di fronte a quesiti sempre più importanti, anche a domande a cui non avremmo mai potuto rispondere.

La scrittura e la voglia di raccontare spuntarono così di nuovo tra le abilità che sentivo di poter affinare, di poter prendere sul serio.

Ma non le feci diventare una questione di ossigeno. Erano semplicemente hobby che ogni tanto facevo per occupare il tempo.


Fu all'università che scalai qualche marcia e mi resi conto che con le parole scritte potevo entrare nel cuore delle persone, potevo farle emozionare o intrattenere. Potevo prendere un piccolo megafono e raccontare storie a un gruppo di amici devoti. Amici in grado di dirti con onestà quanto faceva schifo (oppure, in quantità minore, quanto fosse valido) il materiale che avevo scritto. E il bambino che ancora viveva (e mi auguro viva ancora) urlava “…se porto alla realtà qualcosa che esiste solo nella mia fantasia, può diventare un caso di discussione tra i miei amici quasi come se fosse una cosa veramente accaduta?”.

Sì, era proprio così.

La certificazione di cui avevo bisogno mi venne data da un corso di Scrittura Creativa che seguii in Accademia Albertina, durò solamente un paio di mesi ma fu l'inizio di un nuovo capitolo della mia vita.


In tutto questo non smisi mai di leggere Stephen King e, più recentemente, introdussi anche Neil Gaiman.

Due instancabili autori, che hanno creato universi, personaggi e storie indimenticabili con un forte punto in comune: la sacralità e l’importanza dell’infanzia, della fantasia e del raccontare storie.

Nel gran parte delle loro opere viene data un’importanza vitale alla narrazione, una sorta di esercizio di meta-letteratura (esempi chiari si possono trovare nel fumetto capolavoro Sandman di Neil Gaiman e nel recente Stephen King con il romanzo Billy Summers, qui trovate un'altra confessione proprio a proposito di questo romanzo).



Bernard Malamud


Avendo ora il quadro completo della mia esperienza con le storie, posso notare con orgoglio che l’irrefrenabile voglia di raccontare scorreva nelle mie vene da sempre.

Dovevo solo avere abbastanza tempo e fiducia in me stesso perché questa cosa maturasse.

Imparai anche una cosa altrettanto fondamentale e che mi diede un bel po’ di umiltà:

Lo scrivere bene è da ritenere assolutamente una forma d’arte pregiata, una cosa che pochi sanno fare veramente in modo cazzuto. Ma è anche altresì vero che CHIUNQUE può scrivere.

Anche in modo leggermente sgrammaticato, in modo un po’ confuso o con metafore scontate.

Perché la scrittura racconta esperienze di vita, a prescindere che si stia scrivendo un fantasy o un horror ambientato nello spazio. Senza le esperienze quotidiane della realtà, senza le sofferenze che ogni essere umano deve vivere in questo viaggio la scrittura non può spiccare il volo.

Realizzando questo mi resi conto che anche se avessi fatto il professionale, con un po’ di forza di volontà e di fortuna, la scrittura sarebbe comunque potuta essere parte importante del mio futuro.

Perché non ha importanza la propria professione, non ha importanza il proprio grado d’istruzione.

Le storie VERE e VALIDE si annidano OVUNQUE e perciò coloro che le vivono diventano in automatico potenziali narratori, potenziali Viaggiatori Corvidi (così come definisco coloro che leggono o scrivono nel mio blog).



Recentemente mi sono reso conto anche di un’altra cosa: sono una cascata di passioni e di racconti personali.

Se ho conosciuto qualcuno da un paio d’ore sarei in grado di raccontare gran parte della mia vita quasi senza filtri nel giro di poco. Come se fossi un malato mentale oppure un tizio parecchio maleducato che non conosce le buone maniere.

Questo mi accade spesso quando passo dei periodi in cui scrivo poco.

Il bisogno di raccontare è come se fosse una questione fisiologica, deve essere esplicata ogni giorno. Non importa se con un racconto di narrativa, con una riflessione, con un papiro perché sto litigando con qualcuno oppure con un post fiume su Facebook.

Devo RACCONTARE.

Devo fermare su carta o sullo schermo le parole che svolazzano in modo caotico nella mia mente.

Devo fermare le immagini che mi appaiono in sogno o durante la giornata di lavoro.

Ed è qui che ho capito una cosa fondamentale:


In un mondo in cui tutto deve essere recensito e in cui tutto deve essere riconosciuto ufficialmente, avere una passione intima come la scrittura può essere parecchio frustante.

Perché se non si pubblica non ci si può ritenere uno scrittore.

Perché se non si viene letti da migliaia di persone non ci si può ritenere uno scrittore.

Ma ho sempre sbagliato a vedere questo mestiere: se ci si aspetta di sentirsi scrittori solo dopo aver ricevuto una certificazione di quel tipo ci si tira la zappa sui piedi.

La scrittura deve diventare una faccenda vitale.

Deve diventare uno sfogo, uno terapia, una liberazione.

Solo in seguito, con un po’ di fortuna, ci si potrà classificare come “scrittore”.

Ma quello non deve essere l’obbiettivo definitivo. Ovviamente chiunque abbia la passione della scrittura sogna di pubblicare un libro un giorno, anche io, mentirei se dicessi il contrario. Ma questa idea deve far parte dell’insieme più grande.

Scrivo perché così posso proseguire il mio cammino in modo più sereno.

Scrivo perché mi metto a posto le idee.

Scrivo perché la prima cosa che ho imparato stando al mondo è che tutto quello che ci riguarda come essere umani è potenzialmente una storia.

Il nostro passato, le nostre memorie, le cose studiate, il nostro lavoro.

OGNI cosa ha bisogno di essere RACCONTATA per ESISTERE.

A parte poche eccezioni (ad esempio emozioni che per quanto ci si provi a spiegare a parole sono troppo imponenti per essere incatenate con le lettere) il resto ha questo bisogno essenziale di essere raccontato.

Negli ultimi tre anni, questa mia detestabile inclinazione al raccontare troppo, ha intimorito parecchie persone che si sono allontanate.

Diciamo che da una parte è molto utile come setacciatore per le compagnie.

Dall’altra invece a volte allontana anche persone che era piacevole avere attorno.

Ma sono certo che faccia tutto parte del viaggio.

Ho preso coscienza di questo mio lato e ho sentito il bisogno di renderlo pubblico quasi come se mi facesse espiare delle colpe. Non so se queste parole verranno mai lette da qualcuno che ha più o meno la stessa esperienza, in ogni caso sono felice di avervi raccontato questa ennesima vicenda.

Concludo così la Confessione nominando nuovamente l’opera che più di tutte è riuscita a spingermi a riflettere sul valore dello storytelling, Sandman di Neil Gaiman:


In 14 volumi vengono affrontati tutti gli aspetti della vita di un essere umano e non solo.

Vita, morte, nascita, miracoli, sogni, casa, famiglia, universo.

Un’apnea creativa mozzafiato e irripetibile. Che a volte ci fa perdere la bussola per quanto è vasta.

Arrivati in fondo si ha la sensazione di aver compiuto un viaggio in una terra lontana, di aver sognato ad occhi aperti.

L’impatto è così forte da diventare una cicatrice da mostrare con orgoglio. Perché come Sandman, non esiste nulla.

E sì, Neil ha “portato alla realtà qualcosa che esisteva solo nella sua fantasia, ed è diventata un caso di discussione tra gli umani quasi come se fosse una cosa veramente accaduta.”

Un giorno spero di poter regalare al mondo anche solo un decimo di quello che hanno regalato a noi Neil Gaiman, Stephen King e Peter Jackson, tutti animati da quell’irrefrenabile voglia di...

raccontare storie.



Barone Canavese (TO) /Champoluc-Ayas (AO), Italia

Agosto 2022

I. G.




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