Aria
- Igor Gribaldo

- 21 set 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Aggiornamento: 22 feb 2024
(Si consiglia l'ascolto di questa canzone durante la lettura).
Fisso la solita pappetta verde convinta che sia quella gettata fuori dalla bocca di Linda Blair ne L’esorcista. Gli infermieri mi dicono sempre di finire la velluta di piselli, che fa bene e altre stronzate che vengono dette ai bambini per convincerli a mangiare. Non sono una bambina, per Dio. Ho il triplo dei vostri anni, penso. Ma non lo dico. Non lo dico perché ormai non sono più il capitano di questa nave. Il marinaio Alzheimer si è ammutinato e ha preso il controllo. Da un annetto osservo la realtà da un oblò in fondo alla mia immaginazione, sono convinta di vedere cose, sentirne altre e agisco di conseguenza. Ai miei figli questa cosa non è piaciuta e sono finita qui. Vivo costantemente di ricordi, ogni tanto riesco a spingermi così tanto in là che ricordo perfino i momenti in cui ero in braccio a mia madre Rosa, nei miei primi istanti. Da giovane restavo con il magone quando tentavo di ricordare questa cosa. Il più delle volte mi immaginavo la situazione e restavo convinta di essere stata così abile da ricordarmene, a differenza delle altre persone che non ne erano capaci. Stolta. Il magone che mi coglieva in seguito derivava dal fatto che quel ricordo creava un filo conduttore con la vecchiaia, mi sentivo le dita in preda all’artrite e una radura arida al posto del cuore. Una crescente stanchezza.
Quando poi ho passato i settanta e ho iniziato a vivere tutte queste cose non me ne fregava più un cazzo. Gli esseri umani hanno una scadenza, siamo progettati per finire. La nostra anima si danna tanto per cercare di restare in vita e si affanna altrettanto per raggiungere gli obiettivi che ci poniamo solamente per non pensare al giorno in cui non ci saremo più quando in realtà, una volta arrivati in prossimità del traguardo, tutto ci sembra così naturale e, anzi, ci si sente nel giusto a lasciar spazio agli altri.
Stamattina, pensate, ero convinta di aver visto Davide cadere con il ginocchio sullo spigolo della scrivania dell’infermiera Dania. Mi sono agitata troppo e hanno deciso che era meglio darmi qualche goccia di Trittico. Sogni d’oro.
Più lui accelera e più il suo profumo entra dentro di me... ancora devo capire se è il suo dopobarba o un effettivamente un profumo che usa. Fatto sta che mi ricorda le località marine, una brezza particolare che ti accarezza solo quando cammini in spiaggia.
Sono stretta a lui, stiamo andando in qualche posto della Val d’Aosta che non ha voluto dirmi, vuole farmi una sorpresa. Ha appena comprato una Ducati 125, mi ha ripetuto così tante volte il nome che ho finito per impararlo anche io, ne è ossessionato. Adoro le sensazione che mi cresce nel petto ogni qual volta facciamo un tornante... rallenta un poco, si piega e poi dà di nuovo gas. In quel momento mi sento spingere all’indietro sulla sella e stringo un po’ di più la mia presa su di lui. Poi, dopo qualche metro di rettilineo, percepisco di nuovo il suo profumo. Mi sento protetta, al sicuro. È come se fosse un piacevole dondolio. La grazia con cui piega la moto cercando di non farmi sentire in pericolo equivale a una carezza sul volto. Lo abbraccio un po’ più forte, lui non si scompone. Gli ha fatto piacere ne sono certa. Un’altra leggera aura del suo profumo mi raggiunge. Chiudo gli occhi e mi adagio per poco tempo sulla parte alta della sua schiena. Un’altra curva. Stringo di nuovo un po’ più forte. Un altro sorso del suo odore. È diventata la mia bevanda preferita. Di fianco a noi vedo solo lunghi orizzonti verdi, non mi soffermo mai a cercare i dettagli dei paesaggi. Mi urla qualcosa. Non capisco. Colgo l’occasione e mi avvicino il più possibile al suo orecchio destro. Siamo quasi arrivati, mi ripete. Gli dico che è tutto molto bello. Profumo. Ed è tutto molto divertente. Il mio petto è un turbinio di emozioni, caotico come il rumore del motore della Ducati. Ti amo Domenico. Oh, come ti amo.
Mi risveglio nel cuore della notte, ho gli occhi che lacrimano, cerco di alzarmi ma non ne ho le forze. Sono esausta e confusa. Un attimo fa ero immersa in una verde estate e adesso sono qui dove tutto è buio, dove tutto è caldo ma con il sapore di ospedale. Di malattia. Oh Dio ti prego lasciami andare. Non ho più voglia di star qui.
Non in queste condizioni, non potrò mai salutare come si deve i nipotini nel modo che avrei voluto ma so che una volta cresciuti capiranno. E se non lo capiranno da adulti lo capiranno quando saranno arrivati alla mia età, ne sono certa.
Non ho mai più visto Domenico dopo quella estate, chissà se è ancora in vita. Chissà dove. Chiudo di nuovo gli occhi poi lo sento. Sento un rumore metallico, ritmato, come se fosse un animale che ringhia. Arriva dal corridoio dove fino a un attimo prima tutto era spento. Una luce bianca illumina la mia vista sulla destra. Il profumo di Domenico è nella stanza. È qui con me. Lo stringo un po’ più forte. Mi sento spingere all’indietro da qualche forza invisibile. Una folata d’aria estiva sul volto. Il buio non è più sinonimo di paura. Si tratta di un lungo, straordinario, sospiro di sollievo.




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