faccia a faccia
- Igor Gribaldo

- 12 ott
- Tempo di lettura: 7 min

La consegna
L’intervista impossibile.
Scegliete un personaggio (può essere realmente esistito oppure inventarlo di sana pianta) e fategli un’intervista di 5 domande e risposte… ma in chiave ironica e surreale.
Elena (@lamentecarta)
Intervista impossibile ad Ai Yazawa
La incontriamo nel luogo più prevedibile di tutta Tokyo: il Jackson Burger. È lì, seduta a un minuscolo tavolino in fondo al locale. Forse ci sta aspettando… o forse aspetta solo che ci leviamo dalle palle.
Sta fumando una sigaretta (è ancora legale in Giappone?) con le gambe elegantemente accavallate, gli occhialoni neri le nascondono metà del volto; il resto è total black, dalla testa all’umore.
Sul tavolo, una fetta di torta immobile rimane intatta per tutta l’intervista (sospetto che sia finta). Nell’aria aleggia una scia di Chanel n.5, come se qualcuno l’avesse spruzzato un secondo prima del nostro arrivo.
Superati i convenevoli, che accoglie con un mezzo sorriso, più di cortesia che di reale interesse, la Yazawa ci concede cinque minuti, non uno di più.
Domanda 1: “Perché in Nana tutti fumano come ciminiere, ma nessuno tossisce mai?”
Yazawa: “Semplice, qualcuno fuma sigarette di scena (non dirò chi, per non rovinare l’estetica e l’allure del personaggio), mentre gli altri trattengono il fiato fino al cambio scena. Tossire non è molto punk.”
Domanda 2: “Quando ha scritto Marine Blue, aveva solo 22 anni. Nella storia c’è un amore impossibile: quello che Ippei prova per sua cugina Tachibana. Oggi sarebbe considerato un tema controverso… perché scelse proprio quel tipo di amore?”
Yazawa: “Perché non mi interessa scrivere di amori facili. Io racconto gli amori che accadono, quelli che ti bruciano dentro, che non puoi confessare e che nessuna censura può contenere.
All’epoca tutti scrivevano di baci sotto la pioggia… io volevo qualcosa che facesse dire all’editor: ‘Aspetta, COSA?!’
E poi, se in uno shōjo non c’è almeno un ‘non si può’, che gusto c’è a leggerlo?”
Domanda 3: “In Non sono un angelo, Midori, la protagonista, è solare, ottimista e un po’ goffa.Oggi la definiremmo una people pleaser. L’ha creata come esempio o come avvertimento?”
Yazawa: “Come avvertimento, direi. Sì, è una people pleaser, ma nei manga degli anni ’90 non c’erano ancora gli psicologi — solo gli amici che ti dicevano ‘forza e coraggio’.”
Domanda 4: “In Ultimi raggi di luna, Eve è un fantasma che solo Hotaru può vedere.Domanda forse sciocca… ma i suoi vestiti sono fantasma anche loro?”
Yazawa: “Ah no, i vestiti di Eve sono ovviamente di marca ultraterrena Chanel. Quando sei morta, non puoi più cambiare outfit… quindi tanto vale mettersi i migliori tutti i giorni.”
Domanda 5: “Ultima domanda: se potesse tornare indietro, darebbe a Yukari di Paradise Kiss un finale più felice?”
Yazawa: “No. Le darei solo un mascara migliore.
La felicità è sopravvalutata: il dolore vende molto di più.”
Igor (@gribyslab)
Faccia a faccia con... Ed Gein
Igor: Buonasera Edward, grazie per aver accettato di essere nostro ospite.
Ed: Buonasera a voi e ai lettori del Club del Libro.
I: Come definiresti la tua attività?
E: Artigianato di qualità, le mie lampade e le mie poltrone non le trovi all'Ikea o da Mondo Convenienza.
I: Non credi di essere al limite della morale?
E: No, assolutamente, per la prima volta Madre è contenta del mio operato.
I: Aprirai un profilo su Etsy?
E: Ci stavo pensando, vorrei anche fare dei tutorial su YouTube.
I: Passiamo al cinema, credi che i grandi successi che raccontano la tua storia siano accurati?
E: No, solo in parte dicono cose vere. Il più delle volte mi sentivo preso in giro e spesso le cose erano inventate. Casa mia è molto più ordinata grazie all'Ordine del Caos.
I: Il tempo è quasi scaduto, ultima domanda: ora che torni a casa, a cosa andrai a lavorare?
E: Stavo pensando di dare una nuova copertina al mio volume di IT di Stephen King...
(sorride)
...usando la pelle del tuo petto.
Federico (@federciani)
Che guardi? Chiedo nel silenzio della stanza.
Il mio interlocutore si presenta di circa sessanta per quaranta, cornice nera, appeso a fianco della libreria. È sempre stato lì, sono anni ormai, messo su in un giorno d’autunno - un po’ come quello in cui siamo ora, a dire il vero - e mai tirato giù. È un quadro che rappresenta una campana di vetro, alta per tre quarti del foglio, all’interno del quale c’è un ceppo di legno tutto rattrappito, sopra, sparuti rimasugli di muschio ormai del colore del legno, il tutto poggiato su sassi piatti d’ardesia. Questa campana è il centro focale, il protagonista dell’immagine, ma non è sola: tutt’attorno si svolge un complesso intreccio geometrico, un collage denso di carta da parati strappata e un brandello di spartito, di cui si legge “Andante doloroso” e la firma: “Edward Grieg”. In basso a sinistra, una pennellata bianca crea lo sfondo per poche parole: “Tempus inreparabile fugit”. Sopra, in alto a sinistra, la sinuosa immagine di donna guarda in basso, dolente, malinconica; è nuda e nella sua nudità è perfetta.
È con lei che parlo, con lei che guarda laconica la grande campana di vetro da anni, sotto i miei occhi curiosi.
Guardo questa pianta morta, mi dice con voce sottile, rauca, chissà perché è chiusa dentro questa campana di vetro, è morta, non c’è dubbio, è secca, molliccia, inerte.
Io sorrido, trovo bellissima la compassione di questa donna di carta.
È il simbolo del passato, credo, del tempo che passa inesorabilmente, le dico. Lei non distoglie lo sguardo.
Il tempo corre via così veloce. Anche se guardo quest’oggetto da sempre, mi sembra evolva, cambi. Anche se ormai esanime, spolpato del suo afflato vitale, è come se il mondo intero vi si rispecchiasse, come se svuotati del nostro Io, una volta morti, diventassimo contenitori per l’universo. Questa stanza, mi dice senza accennare movimento alcuno ma indicandomi con le parole il letto su cui mi siedo, la scrivania, queste quattro pareti ingrigite dal tempo, questa stanza è tutto ciò che vedo, ogni giorno, il mondo esterno si riduce a questo. Eppure, questo ciocco marcio mi rivela tutto il resto. Tutto.
Ti interessa davvero ciò che accade là fuori?
Mi interessa questo legno morto. Ma più lo osservo e più vengo invasa dal bisogno di colmare il vuoto siderale che questa campana nasconde.
Il vuoto, che vuoto? Le chiedo e lei si prende qualche secondo per rispondere. Il silenzio accompagna la mia domanda e condisce l’impazienza dell’attesa.
C’è un dolore protetto da questo vetro, un dolore troppo profondo e pericoloso. È qui per evitare di nuocere nuovamente.
Tu dici che questa campana è una sorta di gabbia?
Sì, un luogo di reclusione che però non nasconde: protegge ma non nasconde.
Che cos’è che c’è lì dentro?
Non saprei, è per questo che mi danno tanto e mi rattristo, perché non lo so e non lo saprò mai. Forse lì c’è rinchiuso il dolore mio che provo a capire che cosa sia racchiuso là dentro. Un corto circuito.
E intanto tempus fugit.
E intanto tempus fugit, già.
Restiamo in silenzio, entrambi concentrati sulla campana. A fianco di questo quadro, sulla libreria, c’è appoggiata una campana identica, con all’interno il medesimo ceppo. Lo guardo e poi torno ad osservare il quadro. Sono uguali ma in realtà sono profondamente diversi. La vera differenza non è visiva, non è geometrica. La differenza è nell’occhio di chi osserva, la differenza è lo sguardo dolente della donna posato sopra. Senza quello sguardo, il ceppo cessa di esistere, ritorna materia inerte. Ma allora perché tenere sul ripiano quell’oggetto? Perché non accontentarsi della riproduzione su carta?
Credi che dovrei gettare questa campana di vetro? Magari bruciare il ceppo morto nella stufa. Le chiedo.
Vedi, se lo bruci, esso diventa una particella del passato, un ricordo. Diventa materia da manipolare, un ingrediente del tuo stato interiore. Se lo lasci lì e lo osservi, esso è presente puro, è materia vivente del tuo essere ora, qui.
Quindi mi stai dicendo che il dolore che quel pezzo di legno si porta appresso, se osservato, diventa materia vivente del mio sentire presente?
Esatto.
Allora forse è giusto tenerlo lì, così è più utile.
Già, forse.
Ora io sono quella donna che guardo il ceppo vero e me ne rattristo.
Ricordo ancora chi me lo regalò, dico ad un certo punto.
Che fine ha fatto? Chiede la donna, tenendo lo sguardo basso.
Non lo so, rispondo, ma ciò che ci legava è ben rappresentato dal ceppo di legno.
Ah! Dice lei e giurerei di vederla sorridere nell’ombra.
Che ci trovi di divertente? Chiedo indispettito. Mi offende saperla divertita; come si permette!
Mi ritrovo a pensare al giorno in cui mi venne donato quell’oggetto e l’aspetto vitale e sgargiante che aveva, mi torna alla mente il sorriso della donna che me lo donò. È come noi due, avevo pensato, protetti dalla campana di ciò che ci lega, parte di un nostro ecosistema rigoglioso, immersi nella vita, pieni di energia. Ricordo di averla posata su quel ripiano e di averla guardata ogni giorno, riempiendomi il cuore del verde intenso del suo muschio.
Il tempo passava e la vita andava avanti. Le cose non sempre durano, non restano inalterate, evolvono e a volte degradano, fino ad andare in sofferenza, fino a morire lentamente, in un’agonia che sembra infinita. Così il muschio sul ceppo, così il sentimento mio, così lo sguardo della donna.
Questo quadro sarà per sempre un ceppo morto e il tuo sguardo sarà per sempre dolente, vero?
Ho paura di sì, sai? Ho paura che il tempo ormai sia fuggito inesorabilmente e non tornerà.
Protetto dal vetro della campana c’è un amore finito, è per questo che sei triste?
Suppongo di sì.
Allora, se tu resti lì a guardare il ceppo, se tu resti a guardia del mio ricordo, forse è più utile che io bruci il mio ceppo, forse è meglio che inizi ad essere particella del passato, che tanto nel presente non c’è più posto per lei.
Non risponde. Un denso silenzio condisce questi istanti tristi. Realizzo che a volte bisogna saper dialogare con il proprio presente, ritrovando un po’ di coraggio.
Ciao, allora, le dico. Sorrido e mi sento già meglio.
Scendo in salotto e poggio il ceppo dentro il camino.
Brucia legno, brucia.

𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼
#42

24 settembre 2025 - 10 ottobre 2025




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