Golden Age
- Igor Gribaldo
- 16 apr
- Tempo di lettura: 5 min

© DALL-E
La consegna
Scrivi una poesia o un racconto breve che parli della tua “Golden Age”, ovvero il periodo migliore della tua vita. Soffermati su immagini ed evocazioni tramite i 5 sensi.
Efed (@the_efed)
Fuga dalla Golden Age

Se dovessi riguardare
Laggiù
in fondo
Finirei adagiato
come un fluido
su del vetro.
Quel che brillava laggiù
erano pepite di ottone
che ora non potrei buttare nemmeno nel vetro.
E se anche là,
altrove
si fosse fermato l'intero pianeta
ora qui è tornato a rotolare
con perfetta grazia.
Da quel giorno scellerato
in cui ho scoperto che la plastica
è più pregiata dell'oro
ma io sono un servo
del vetro.
Giacomo (@giacomo.pirovano)
L’età dell’oro è un fantasma lontano.
È quell’estate fredda dei morti del 15 novembre ’11
prima della notte dei Sassoni e dell’Incudine:
un sole arancio perso dietro i vapori
di una coltre mai più vista,
mai più voluta dal mondo.
Immaginala emergere dalle prime note
di When Death Calls dei Black Sabbath.
L’età dell’oro è un bar Cuccagna
che non voleva diventare grande perché lo era già,
infatti doveva contenere tutte le nostre memorie.
«Un jägermeister». «Regolare», diceva Luka,
amante dei B.L.S. e dei Queen, fuggito all’estero.
A quel bancone, Wooriden disse:
«Prendi la Desperados!
È buona. La bevono tutti i miei amici:
la beve Scott, la beve Wizard …»
e molti altri nomi mai dimenticati.
Su quei gradini corrosi dall’abbandono
Bill mi disse queste parole
senza nemmeno presentarsi:
«Allora, l’idea è questa …»
L’età dell’oro è poi Con il nastro rosa
e il seminterrato del Martinetti,
ed è un amore ingenuo e assoluto.
È rivalità tra uomini e mezzuomini,
è meschinità e disprezzo fraterno,
è cattivo sangue mai fattosi buono.
È profumo alla fragola,
è lo scorrere di chiome superbe
tra le dita ed è il fregarsi
e scambiarsi elastici per legarle.
È tanto metallo pesantissimo,
forgiato tra un capanno sperduto del Gerbido (zona infetta),
un circolo di motociclisti tra le risaie,
un locale dell’Isola di Vercelli
(con all’interno la battaglia dei chiodi,
il primo Jack Daniel’s, «la cavallona»
e tanti volti più o meno persi nel tempo)
e una Torino magica e notturna,
non ancora così troia.
Pure il prog e Cuba c’entrano con tutto questo.
L’età dell’oro è ebrezza e ragazzate ghiacciate,
ma questa memoria la lascio a Gionata.
È malizia e scherzi crudeli. È un inverno pagano,
è un insieme di Altari della follia
ascoltati ogni giorno.
Un freddo violento che non tornerà più,
che il mondo non vuole più.
Resta solo nella tanta musica triste e malvagia.
Un rito antico che affrontavamo
chiodati e borchiati, ubriachi di street
e col cuore colmo di Amaretto del gondoliere,
di Marlboro gold, di Harp Guitar (Don Adler)
e di Planctus de Obitu Karoli (814 AD!),
perfetto per depressurizzare;
forse il paggetto ricorderà ancora.
«Lu vist al Garda, al Piruàn e me anvud
ca ghignau me di foi!»
Il Demone di Francoforte era perplesso
quella volta da Pizza 2000, la bufera infuriava.
«E tu vorresti fare street con sto cesso?!»
In fondo voleva solo una sedia.
L’età dell’oro è anche una stagione calda,
controversa e commossa dagli inarrivabili,
ovvero gli Opeth di Burden e di una Harvest
irrisolta se non 11 anni dopo.
È Livorno Ferraris, proto-punto di salvataggio,
ricco di intrecci e incontri casuali.
È Biella e la sua ghenga per via Italia,
tra libri, dischi e goticità.
È molto altro e molti altri.
È inevitabilmente Candia e il classico Señorita.
Ma questa memoria la lascio alla Signora del Lago.
Igor (@gribyslab)
I tempi d'oro

I tempi d'oro,
viaggiavano,
tra Smallville e gente naufragata su un'isola.
Crescevano sulla stagione della Juve,
con il ragazzo dai capelli d'oro
e Pinturicchio.
Avevano i profumi dei libri
pubblicati dalla Larus.
Avevano il sapore dell'orzo della nonna
con l'euv asbatü.
Avevano i colori della Melevisione,
delle coccole di mamma, papà
e il neonato fratello,
di giocattoli parlanti
e nuvolette della Pixar.
Erano ambientati in Stati Uniti
che non potranno mai esistere,
se non nel cuore degli Slumerican.
Gabriele (@Gabriele Amante)
Memorie di un punk (da appunti del 2016)
Punk non è una cosa seria.
Punk non è un’esercitazione.
Una premessa: noi siamo arrivati tardi, quando l’onda del punk si era già esaurita da un pezzo, e la nostra esperienza è stata in realtà di portata insignificante; tuttavia credo che pochi come noi abbiano vissuto il punk così intensamente, lo abbiano indagato così profondamente, ne siano stati così consumati. Lo abbiamo preso sul serio, lo abbiamo esplorato in ogni sua forma fino al paradosso e alla contraddizione e ognuno a modo nostro continuiamo a subirne il fascino.
Io ero il cuore pulsante, il motore - suonavo la batteria - di questa macchina precaria, questo gruppo antimusicale che si pretendeva movimento, collettivo artistico, circolo filosofico dilettantistico.
La Fabbrica del Sistema, già il nome richiamava l’immaginario di riferimento.
Sei ragazzi, ma mai più di cinque contemporaneamente, hanno fatto parte di questa storia. Il rapporto personale tra di noi s’imponeva sempre sul rapporto artistico, e già questo per noi rappresentava una sorta di attestazione del nostro status di gruppo punk.
Ricordo il giorno in cui la Fabbrica nacque nella mia testa. Non si chiamava ancora così ovviamente, quel nome gli fu dato solo successivamente da R., voce e volto del gruppo, prendendo spunto dal titolo di un articolo anarchico trovato per caso sull’Internet. Un pomeriggio di agosto mi capitò di guardare un documentario sull’hardcore punk americano e in quel momento decisi che quando a settembre avrei rivisto i membri del gruppo in cui suonavo al tempo, il cui nome per pudore trascurerò di riportare, avrei proposto loro un cambio radicale. Sonorità più grezze, ritmi veloci e ossessivi, testi taglienti non più in inglese ma nella nostra lingua madre, perché fossero più espliciti e diretti. Un’attitudine distruttiva e provocatoria, già presente in R. ma che ora avrebbe trovato il giusto spazio e il luogo adatto.
Tre su quattro fummo d’accordo per il cambiamento, uno più resistente e fu l’inizio della prima spaccatura. Due mesi dopo avevamo già composto e registrato il primo Ep e costruito una base concettuale di riferimento.
Registrammo Impresa Diretta, il nostro primo Ep, la notte del 31 ottobre di quello stesso anno, nella saletta parrocchiale dove provavamo all’epoca. Avevamo bevuto molto, e dopo numerosi tentativi falliti di seguire una procedura semiprofessionale di registrazione decidemmo di piazzare un microfono su una cassa spia e registrare il tutto in presa diretta. Fummo incredibilmente soddisfatti del risultato: cinque brani di una grettezza disarmante, suoni sporchissimi ma del calore del live, era esattamente quello che volevamo. Testi demenziali e volgari, quasi parodici, ma attraversati da una sottile ironia. Credo di essere il possessore dell’unica copia fisica di quel lavoro, un cd incartato in un foglio da stampa bianco, i titoli dei pezzi scritti a mano. Riascoltarlo a distanza di anni è ancora piacevole: da sempre suona come un grande “fanculo” a tutti e, come aggiunse R., soprattutto a noi stessi.
Scusa mamma se non sono come vuoi
Però adesso sto cambiando sai
Scusa tanto non mi faccio i cazzi miei
Però il mondo un po’ lo cambio
𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼

25 marzo 2025 - 13 aprile 2025
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