Cambiamenti d'orrore
- Igor Gribaldo

- 1 nov
- Tempo di lettura: 10 min

La consegna
Trasforma una storia esistente in un racconto horror. Può essere una fiaba, un romanzo, una leggenda, un film o persino un episodio della tua vita quotidiana. Immagina cosa accadrebbe se, all’improvviso, qualcosa di creepy entrasse nella tua storia.
Cosa succederebbe se Cenerentola non trovasse una scarpetta, ma un piede?
O se qualcosa della tua routine (ad esempio prendere il treno, accendere il telefono, tornare a casa) si incrinasse all’improvviso, come una crepa invisibile che rivela un mondo orrendo?
Racconta la trasformazione in poche righe, lasciando che la paura nasca non dal mostro, ma da ciò che riconosci e che improvvisamente cambia volto.
Federico (@federciani)
La luce del mattino
C’è una linea di luce che attraversa il soffitto sopra la testa di due amanti. Una luce delicata, che si insinua tra le veneziane, tagliando in diagonale e finendo sul muro freddo: Andrea, nudo, osserva immobile. Sente il calore di Sonia, appoggiata contro di lui, mentre dorme, il suo respiro le somiglia: lieve e delicato. Anche nel sonno non perde la sensualità, pensa Andrea, passandole il dorso della mano lungo la schiena.
Gli sembra lontana la sera, la voce sottile di lei, sussurrargli all’orecchio, nel silenzio carico ed elettrico tutto il suo desiderio; gli sembra lontano il loro stringersi, le carezze, l’abbraccio caldo del camino che scoppietta. Il mattino sembra aver sciacquato via quel desiderio, ma rimane una tenerezza quasi palpabile. Andrea vorrebbe svegliarla, vorrebbe rivedere i suoi occhi, il sorriso.
Desiste e torna a fissare il soffitto, mentre il pulviscolo danza nella luce; con il dito segue quella linea come a volerla ripassare e si accorge che termina proprio sulla spalla di Sonia; annusa, curioso di sapere il profumo della luce al mattino.
Avevano parlato della bellezza, del tempo e di come amare sia un po’ come dominare entrambi, la sera prima: Sonia aveva quel modo tutto suo di guardarlo, mentre parlava, lo faceva sentire unico. Ecco, forse, perché desidera tanto svegliarla: gli manca sentirsi così importante, gli manca la sensazione piena che lo sguardo di lei gli lascia addosso. Pensa anche che gli piacerebbe condividere quell’istante di felicità; perché in questo momento, in questo luogo, Andrea è felice e vorrebbe tanto condividerlo con lei.
Ma lei tutto questo lo ignora, dorme profondamente, immobile, accarezzata dal fascio di luce e dallo sguardo sereno di Andrea.
Ti amo, sussurra lui, giusto per sentire il suono di quelle parole, curioso di assaporarne il sapore. Prova a ripeterlo, alzando un po’ di più la voce, nella speranza che lei senta e si svegli. Nulla accade.
Andrea ora sente un impulso quasi irrefrenabile, vuole vedere l’effetto che questo “ti amo” ha sugli occhi di Sonia, vuole vedere il suo viso illuminarsi, il sorriso aprirsi, gli occhi farsi rossi di felicità. È mai stato così felice? Fatica a ricordarsi. Tutto sembra nuovo e travolgente. In una notte la sua vita sembra essersi rivoltata al rovescio. Se solo potesse dirle “ti amo” e poi baciarla; questo pensa e un po’ si commuove all’idea.
Il fascio di luce si è allungato lungo la schiena, passa la mano e lei sembra avere un sussulto. Se solo potesse dirle “ti amo”, finalmente la sua vita cambierebbe e potrebbe essere felice anche lui.
Il tempo nella stanza sembra immobile. Andrea si alza e va alla finestra, c’è uno spazio in cui filtra la luce, ci guarda attraverso: una luce fortissima ingloba le forme; lui stringe gli occhi, cercando di distinguere qualcosa. A volte quando si passa dal buio alla luce c’è bisogno di tempo per abituarsi e iniziare a vederci chiaro, ma là fuori qualcosa non va. La luce è forte in maniera innaturale, quasi che il bianco si fosse impossessato di tutto. Si gira di colpo e Sonia è sempre lì, bella da toglierli il fiato. In lui qualcosa però sta cambiando. Quella luce lo angoscia e non capisce il perché.
Torna a fissare fuori e, dopo un po’ di pazienza, ecco penetrare in quella luce accecante la silouette di un’enorme sfera; non c’è altro: non il giardino, né la grande quercia, nulla, solo quella grande, immensa sfera. Andrea si passa la mano sulla bocca, sospira spalancando gli occhi. Esita un istante, guarda Sonia. Buffo a dirsi, ma un’angoscia gli sale in gola, un terrore che cresce come un’ondata di piena: rapida, inarrestabile, e lui, pur sprofondando nella più ancestrali paure, quella di morire, guarda Sonia e pensa che ancora non gliel’ha detto “ti amo”. Ora vorrebbe tanto dirlo e prova ad articolare quella semplici parole, ma nulla esce fuori. Il cuore inizia a battere ad un ritmo forsennato, sembra doversi rompere da un momento all’altro, un tremore parte dalle mani, spande lungo le braccia e gli si impossessa della testa. Prova ad articolare con la bocca, la apre, ma il fiato corto e il tremolio della mandibola impediscono di dire alcunché.
Intanto la luce si fa sempre più forte e con lei la paura. Andrea è paralizzato da quella paura. Vorrebbe urlare il suo nome, svegliarla, salvarla, ma non riesce a fare nulla; sente quella cosa, quella palla luminosa, farsi sempre più potente, inevitabile. Sente che quel muro, quella veneziana, non lo proteggeranno, non proteggeranno Sonia.
“Ti amo”, vorrebbe dirle, almeno una volta, almeno quello. Ma lei dorme e non sembra accorgersi di nulla. Stringe i pugni, quasi a stritolarsi gli ossicini; c’è un’incombenza che pare succhiarli via ogni energia vitale e lui cerca con ogni muscolo di contrastarla, invano.
Ora la luce entra violenta, il corpo di lei, si fa diafano, evanescente, non importa quanto lui ci provi lei si fa sempre più lontana e irraggiungibile. Per un istante cerca di immaginarsela vicina e persino questo pensiero sembra impossibile, quasi che quella luce si stesse impossessandosi anche di ogni centimetro di lui, del suo pensiero, della sua anima.
Era felice? Sì, seppur brevemente, seppur solo, Andrea era felice. Resta il solo rammarico di non averglielo detto, quel “ti amo”. Ma ora è troppo tardi, le ultime energie rimaste le impiega a riportare alla memoria il viso di lei, mentre sorride. Gli serve uno sforzo inumano, ma ce la fa. Ecco che tutto si interrompe. Sonia sorride e lo fissa. Lui si distende, sorride e dice: Ti a…SIPARIO
Igor (@gribyslab)
Gregorio e Delia, persi tra le serpi
Gregorio e Delia erano cugini, avevano un anno di differenza, anche se in realtà erano nati a pochi mesi di distanza: lei in ottobre, lui a febbraio dell’anno successivo. Quando arrivava l'estate e la scuola finiva, loro non volevano andare nei centri estivi, preferivano di gran lunga andare dai nonni materni.
A volte si univano anche altri cugini, ma la maggior parte del tempo erano loro due a vivere le avventure che quell'angolo del Canavese aveva da offrire.
Una delle loro attività preferite era prendere le biciclette e sgattaiolare fuori dal cortile senza che i nonni se ne accorgessero. E così fecero in quella mattina di metà luglio del 2004.
Non si spingevano troppo distante dalla casa dei nonni, si limitavano ad esplorare le campagne nei dintorni, anche i nonni lo sapevano (ma questo ovviamente non diminuiva l'ansia che la nonna provava non appena si accorgeva che i nipotini se l'erano filata di nascosto).
Quella mattina andarono ad Iserp, una zona a poche centinaia di metri di distanza dai nonni. Si chiamava così perché nel corso dei decenni ormai non si contava più il numero di vipere e serpenti che erano stati avvistati. Alcune di queste avevano anche morso i contadini, per fortuna senza tragiche conseguenze.
Gregorio aveva la bicicletta azzurra, quella più leggera e maneggiabile. A Delia invece era toccata quella granata, pesante e con i freni che funzionavano poco. Pedalarono felici per la stradina che conduceva al prato principale di quella zona, riuscirono anche a sorpassare senza grosse conseguenze il terreno del contadino pazzo che possedeva due assetati Rottweiler. Raggiunsero il prato, gettarono le bici a terra e si sedettero a parlare.
A Gregorio piacevano i fumetti della Marvel (soprattutto Wolverine), a Delia i fumetti delle W.I.T.C.H.. Intavolarono una discussione esprimendo i loro pareri sulle storie che avevano letto la sera prima. Un leggero vento accarezzò i loro volti. Si zittirono per sentirlo attraversare le foglie dei grandi alberi attorno a loro. Adoravano il Canavese, non sarebbero mai stati in grado di esprimerlo a parole ma è quello che provavano.
Appena il vento cessò si alzarono, presero le biciclette e le portarono a mano. Volevano tornare a casa dai nonni con molta calma, un po' per godersi quel piccolo momento di ribellione e un po' per far preoccupare ancora la nonna.
«Hai sentito quel rumore?» chiese Delia.
«No, non ho sentito nulla.» rispose Gregorio.
Si zittirono nuovamente, ma il fruscio del vento non lasciava spazio ad altri suoni. Proseguirono la loro camminata leggermente inquietati.
«Speriamo la nonna abbia fatto la pasta con il sugo alle olive.»
«Ma l'abbiamo già mangiato ieri!»
«Va bè, è sempre buono il sugo alle olive»
Crac!
Alla destra della stradina che riportava alla casa dei nonni sentirono un rumore, come di un grosso ramo spezzato. I pensieri delle loro piccole testoline li portarono subito a pensare si trattasse di un ramo spezzato dal vento, poi in un angolo della loro mente nacque l'idea di essere seguiti da qualcuno. Magari il contadino pazzo dei Rottweiler.
Questi pensieri però fecero spazio ad una consapevolezza molto più credibile, perché di fronte a loro si era materializzato ciò che aveva prodotto quel suono.
Una decina di vipere e serpenti li stavano fissando.
A Gregorio e Delia cominciò a girare la testa. Le vipere erano nere, con eleganti sfumature rossastre; i serpenti, di un giallo intenso. A parte uno che era di un verde cadaverico.
I bambini salirono sulle loro bici e fecero marcia indietro, sfrecciarono al centro del grande prato senza mai guardarsi indietro.
«Li abbiamo seminati, non possono essere così veloci.» disse Gregorio.
«Già, ma ce ne possono essere degli altri...» rispose Delia.
Arrivarono fino al limite del prato, prima delle grandi piante, e si accorsero che il terreno sotto le piante era composto per lo più da bestie striscianti. Un paio di lacrime rigarono il volto di entrambi.
Siamo in trappola
«Che facciamo Delia?»
«Torniamo sulla strada e ci passiamo sopra con le ruote.»
«Ma non rischiamo di farci mordere?»
«Non so che cosa fare altrimenti.»
Gregorio non rispose, anche lui non avrebbe saputo suggerire altro.
Fecero un lungo respiro e poi presero a pedalare verso la strada, cercando di non pensare a cosa stavano andando incontro.
Arrivati davanti alla stradina, un paio di dita si appoggiarono sul freno della bici di Gregorio ma vennero subito tolte non appena vide Delia prendere in pieno, con la ruota della bici, la testa di una biscia e farla esplodere. Sentì una malsana soddisfazione e ciò lo spinse a voler provare anche lui ad ammazzarne una allo stesso modo. Pedalò più forte, esplose qualche testa e tranciò qualche orrendo corpo strisciante. Continuarono per un paio di minuti, alcuni serpenti si levarono dalla strada ma altri, i più grossi, cercarono di pizzicarli.
Fortunatamente ne uscirono illesi, non si girarono a guardare cosa aveva provocato il loro passaggio, non si girarono nemmeno a guardare il terreno del contadino pazzo, non sentivano più neanche l'abbaiare dei grossi cani.
Arrivarono al cancello di casa dei nonni, lo aprirono, andarono a posare le biciclette e corsero di sopra.
La nonna urlò loro di non permettersi mai più di fare una cosa simile.
Gregorio e Delia si guardarono scambiandosi un'occhiata d'intesa, con gli occhi lucidi.
Non si sarebbero mai più permessi di fare una cosa simile... a Iserp si intende.
Giacomo (@giacomo.pirovano)
Era un lunedì di luglio ed erano già passati quasi due anni dalla tua dipartita. A quel tempo potevo ancora permettermi di allenarmi al mattino; della mia palestra ricordo l’atmosfera avveniristica, la luce naturale delle grandi vetrate, il sudore e l’olezzo, i colori netti, i Rammstein e i clangori della ghisa. Un antro d’asprezza e salute a due passi dal nostro riparo in quella notte di tempesta. Sembrava di essere nel cuore delle miniere di Moria ancora in piena attività nel ventunesimo secolo.
Prima di entrare in sala, nella fresca penombra degli spogliatoi avevo dato un’occhiata agli ultimi appunti del mio quadernino rosso: una paginetta a quadretti, sgualcita e macchiata dalla mia grafia.
Armato di cintura, ginocchiere, acqua e tutto il resto, mi ero poi avvicinato al ripiano delle schede per posare tutto il banchetto (così chiamo tutto l’occorrente per l’allenamento). Non ricordo appieno la dinamica, ma devo aver sistemato la mia postazione e il bilanciere che mi avrebbe accompagnato per una lunga sessione di squat. A un certo punto mi sono guardato intorno.
Dov’era finito il quadernino rosso? La disposizione razionale degli attrezzi, dei mobili, delle panche, i larghi spazi perfettamente puliti e ordinati, il contrasto del nero pavimento gommato contro il bianco dei muri non lasciava scampo. Non poteva non vedersi, non poteva nascondersi. Cominciavo a cercare disperatamente. Non era possibile. Nel giro di pochi istanti tutte le mie certezze erano crollate: pure lì, nel mio antro salvifico. La mia sicurezza cieca nella materia e nient’altro lasciava spazio a deliranti ipotesi. Scrutavo ovunque, inutilmente, tra sala, bagni e spogliatoi, mentre i Rammstein scandivano gli stacchi da terra e i colpi di panca piana, e la ghisa riecheggiava come se i nani stessero forgiando le loro migliori armi e armature; ma il Barlog, da tempo dormiente nelle mie profondità imperscrutabili, stava riprendendo a sbuffare e borbottare. Avevo aperto pure il cassetto della postazione del tablet, che non mi sarei mai sognato di utilizzare per riporre alcunché. Dentro c’era un un foglietto ironicamente inquietante: «Non dovevi aprirlo! Sei entrato in un’altra dimensione!» o qualcosa del genere.
Anche il coach di sala si è messo a cercare. «Devi sapere che qui sono successe già cose strane. Una volta avevamo lasciato due bumper da 10 su un bilanciere in pedana. Dopo essere saliti per alcuni complementari siamo tornati giù e, ti giuro! Non c’era nessun altro in palestra: il bilanciere era carico con due rossi. Succedono cose strane, non so… c’è una qualche presenza.» Continuavo a ripetere che non sapevo più cosa dire e andavo avanti con il mio allenamento e la mia quieta disperazione.
Tutto questo per un semplice quadernetto rosso. Eppure, se può volatilizzarsi nel nulla un banale ammasso di cellulosa, allora cosa potrebbe svanire da un momento all’altro, senza alcuna spiegazione? Forse anche qualcosa di molto più importante?
Dopotutto, la sparizione di quell’oggetto, zeppo di note su esecuzioni, carichi, serie e ripetizioni, scaraventato per circa 48 ore nell’aldilà o in un altro universo, oppure nel futuro, o nel passato, magari consultato da qualche essere senziente, da qualche spirito superiore o inferiore, è stata solo una piccola messinscena di ciò che è già accaduto e di ciò che dovrà ancora accadere.
𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼
#43

13 ottobre 2025 - 29 ottobre 2025




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