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𝔽𝕖𝕒𝕤𝕥


© Hotpot Ai


La consegna


Descrivi un pasto con qualcuno, può essere costruito sul dialogo o sulla descrizione, o entrambi.


Gabriele (@Gabriele Amante)


FAME TRANSILVANICA


Il vento che sbatteva contro le ampie vetrate della sala da pranzo faceva da cupo sottofondo al nostro desinare. Più le stanze si trovavano in alto, nella Torre, più quel suono diveniva stentoreo. Fuori c’era sempre vento, quando non infuriava la tempesta. Dalle finestre, tra un infisso d’oro e l’altro, era visibile verso Nord il profilo dei Carpazi, appena sopra a una macchia sconfinata e nera come la pece, nella quale lo straniero non avrebbe saputo riconoscere la foresta. Una dozzina di candele illuminava l’ambiente dai candelabri appesi alle pareti; le nostre ombre, proiettate sul pavimento di pietra grigia, parevano sinistre figure incappucciate.

Eravamo io e lei, seduti l’uno di fronte all’altra, separati solo dalla tavola d’ebano già imbandita. Avevo deciso che quella sarebbe stata la sera: ero pronto, finalmente, ad unire il mio destino al suo. Per l’occasione lei aveva cucinato la mia pietanza preferita, la zuppa di fagioli e maiale affumicato, fasole cu ciolan nella sua lingua madre. L’aveva preparata in un piccolo calderone di terracotta, che ora giaceva fumante di fronte a me. Me ne riempii il piatto, e prima di affondarvi il cucchiaio feci il segno della croce. In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti… Secoli di tradizione culminavano in quell’istante, in quel gesto propiziatorio posto a sigillo del mio ultimo pasto. Panem nostrum cotidianum da nobis hodie… Toccai il crocifisso d’argento che portavo al collo, poi iniziai a mangiare. Tentai di registrare nella memoria quel trionfo di sapori, di trattenere nel palato l’aroma del timo selvatico. Lasciai che i miei denti traessero godimento dalla tenerezza della carne, che le mie labbra e la mia gola si tingessero ancora una volta del rosso di un vino moldavo.

Mai più avrei saziato il mio stomaco a quel modo. Forse il Cristo aveva provato simili sentimenti cenando per l’ultima volta con i suoi discepoli; forse un simile timore lo tormentava quando al Getsemani implorò il Padre di allontanare da lui l’amaro calice.

Mentre gustavo quel cibo, la mia amata mi fissava in silenzio dall’altro capo del tavolo, lo sguardo severo e impenetrabile. Non riuscii a scorgere nei suoi occhi né un’ombra di impazienza né un velo di compassione. Davanti a lei non c’erano stoviglie né posate, e nemmeno la coppa che di solito ospitava il suo nutrimento: quella notte non le sarebbe servita. Lei, la donna che si era abbattuta sui miei giorni come una calamità, distruggendo ogni cosa e ricostruendola dalle fondamenta. Colei che mi aveva promesso un nuovo pane e una nuova vita, da trascorrere insieme per l'Eternità. L’angelo sceso dal Cielo per donarmi il Regno, o il diavolo venuto a comprare la mia anima. Attese pensierosa la fine del mio pasto, quindi si alzò e percorse a passi lenti i pochi metri che ci separavano.

Poi giunse il momento. L’ora della mia personale Apocalisse e palingenesi, l’ora della Salvezza e della Dannazione. Fui io ad offrirle il collo perché officiasse il Sacramento. Sentii i suoi canini penetrarmi la giugulare: il dolore si mischiò all’estasi, fui elevato alle vette più alte e agli abissi più profondi della Terra, e vidi il Tempo fermarsi. Tutto era chiaro, e tutto si confondeva: dinanzi a me avevo la Verità più limpida e la più diabolica Menzogna. D'un tratto ero libero, eppure su di me gravavano catene pesanti oltre ogni dire. Quale bellezza, quale orrore.

Quando la mia amata completò il rituale, nulla era più come prima, e allo stesso tempo tutto era rimasto uguale. Guardandomi negli occhi finalmente parlò, e come recitando dei versi mi disse:

Prendimi... non senti la Chiamata

Abbracciami in eterno, nel tuo sonno diurno

Saremo coloro che respirano il vento del Dolore

Dolore e spavento, la più cara catarsi


La trasformazione era compiuta, e solo allora capii.

Ero diventato ciò che ero sempre stato. Ero diventato Contraddizione.



Greta (@gretaabrunoo)


Radicchio mentale


Seduta su una sedia da quattro soldi osservo Pedro spolpare il suo cosciotto di tacchino.

Io, come di mio consueto negli ultimi mesi, insalata mista con aggiunta di radicchio.

Non sono mai stata un'amante della verdura: troppo croccante, troppo molle, mai una via di mezzo. Proprio come me.

"Ora si spiega tutto!" quasi urlo.

Pedro decisamente confuso, apparentemente non si pone domande, ma scrutandolo con i miei occhi da felino noto i dubbi sobbalzare nella sua mente uno sopra l'altro, senza però arrivare alla soluzione. Come avrei dovuto spiegarglielo? Il mio autosabotaggio era giunto a livelli sovraumani. L'odio per me stessa vietava addirittura l'ordine di semplici spinaci. Ma allora perché il radicchio era privilegiato?

Semplicemente questo vegetale non faceva parte della lista nera in quanto amaro. E io odio i sapori amari.

"Davvero sono così contorta?"

Nell'istante in cui alzai lo sguardo per osservare il mio compagno, notai con piacere che lui invece aveva già finito di divorare tutto.

"Amore, la tua insalata?"

"Ci sono quasi."

Parlammo del più e del meno, il derby tra Inter e Milan, Tramontana, il compleanno del Crux. Insomma, una classica e vuota Domenica sera.

"Comunque ogni giorno è Domenica."

"Cosa stai dicendo esattamente?"

"Nulla. Ho finito, andiamo a pagare."



Giacomo (@giacomo.pirovano)


RISTORANTE PIZZERIA ALBERGO LUPA BIANCA


Uno degli storici locali della tua città. Incassato tra il borghetto e la stazione, dà sulla rotonda ai piedi del colle di San Gaudenzio. Era chiuso il nostro chiosco-kebab delle birre da bere di sera seduti lungo il fiume. Credevo di avere fame, credevo di essere orgoglioso di me in quel torrido e anonimo lunedì di agosto, con la mia canotta da chad del Fu Manchu, quella di Jack Burton in Grosso guaio a Chinatown. Il pomeriggio era minacciato da nubi e gocce esitanti: noi facevamo merenda con i tuoi famosi panini di Fondo, quelli dell'anziana del bar oltre il ponte di pietra che diceva scostante: - Si può fare tutto come volete –. Tu, ovviamente, classico al salame, io invece lardo e toma locale.


La Lupa Bianca non si ferma mai. In una sera qualsiasi del mese più afoso e svogliato dell’anno l’intero locale traboccava di avventori: coppie di anziani o di adolescenti, sperduti turisti, clienti di famiglie fidelizzate da generazioni, marmaglie di bocia rimasti in città. In mezzo a quella baraonda, l’eleganza nel vestire - quasi una punizione con quella canicola - dei giovanissimi camerieri e del maître era ferma a un gusto anni ottanta. In fondo arrivava da quell’epoca anche la mia canotta del Fu Manchu, anche i tuoi pantaloncini succinti, parte del mio regalo, anche la scelta maliziosa del tuo ventre rigorosamente scoperto. Vivevamo l’imbarazzo dell’essere sballottati da un ambiente all’altro, nelle viscere della Lupa, mentre il personale era alla ricerca di un imprevisto tavolo per due. Eravamo finiti in una sala dipinta e arredata di recente, in cui dominava una luce ansiosa e un fresco artificiale. Lì dentro eravamo stretti; ti ricorderai della coppia di anziani al nostro fianco. La donna sembrava felice di vederci; avrà pensato a noi, giovani, ma non poteva sapere nulla. In definitiva non c’era da temere quell’affiatata comunità di una troppo bella, vanitosa e perversa cittadina. Forse non si intuiva nulla dai miei occhi – erano pieni d’angoscia, come li ricordavi tu quella volta in via Po, molti anni fa? - che però ruotavano ovunque in quegli interni, come quelli di un paranoico, e si chiedevano cosa sapessero di noi tutte quelle persone così diverse tra loro.


Aprivo il menù e mi si chiudeva lo stomaco. Scorrevo la lista dei primi, delle pizze, delle bevande, senza quasi afferrare i significati di quelle voci stampate in nero e custodite in fogli plastificati. I grandi piatti della tradizione di mare, gli intramontabili classici della ristorazione italiana. Tutto così lineare, già visto, fermo nel suo tempo, sconvolto dal mio essere nel mondo. Volevi l’impepata di cozze, giusto da dividere, perché ti piaceva tanto. Poi una calamarata, io invece gli spaghetti alle vongole. Acqua, niente alcolici. La messinscena dell’ordinazione.

Addentai il primo mitilo e già avevo capito tutto. Hai cominciato a nutrirti di quelle piccole vulve voracemente, una e poi subito un’altra. Aprivi quell’immobile linea rossa che era la tua bocca e ne godevi, dopo averle imbevute nel loro sughetto che tanto amavi. Senza accorgermene, fino a quel momento al nostro tavolo si erano dette poche cose, ma avevi parlato soltanto tu.


- Non stai mangiando niente, potevi dirmelo se non avevi fame, evitavamo di venire qui; ci prendevamo solo qualcosa di veloce. -

- Tranquilla, ce la faccio. -

- No, guardati, non parli, non mangi, sei morto dentro. -

- Va tutto bene. -

- Noi non possiamo stare insieme. -


La guardo con quel piccolo frutto di mare masticato tra i denti, senza cogliere alcun sapore, senza poterlo deglutire. Aggiunse: - La cosa si sta facendo un po’ pesante per me; oramai tutte le volte … Reagii con una delle mie, la bocca mezza piena: - Hai presente cosa dice Cosmo? - Qui rispondevi alla mia domanda col tuo sguardo annoiato, che già troppe volte mi aveva sentito fare citazioni e riferimenti. Continuai: - Passerà, come passa un sabato. Mi addormenterò, senza più paura di niente. Oltretutto quando scrive questi versi pensa proprio a quei sabati lì, i tuoi sabati, quelli della tua città. - Non dicevi niente, non avevi niente da dire; eri scettica e distante. Trionfavi, ancora una volta, sulle cose del mondo. Quel tavolo ne era la rappresentazione: il mio piattino raccoglieva la magrezza di quattro gusci dispersi. Il tuo invece era colmo di vittime, un’abbondanza di colpi di piacere andati a segno contro la carestia, il forzato punteggio della mia parte di antipasto. Te lo feci notare, e tu: - Quindi? Cosa vuol dire tutto questo? Niente, assolutamente niente. - La tua era una voglia e una fame insaziabile. Avevi finito in un attimo la calamarata, io ero appena riuscito a dare due forchettate a miei spaghetti. È vero, a lavoro era tanto se ti gettavano una quaglia e un’insalatina da consumare in mezz’ora. Una scarsa alimentazione in quelle settimane bollenti e infaticabili che, lo sapevi bene, ti avevano smagrita meravigliosamente.


- Guarda come sei ridotto, non è possibile … -

- Dai, parliamo di qualcos’altro, raccontami qualcosa. -

- Cosa ti devo raccontare? Non ho niente da dirti. -

- Ok, allora, senti questa … - tu sbuffavi, guardavi distante. Come se nulla fosse cominciai.


- Mia nonna racconta sempre questa storia breve. È una di quelle tristi vicende canavesane di fine ottocento. La mia trisavola Anna viveva a Tonengo di Mazzè e faceva la balia per una ricca famiglia torinese. Aveva un figlio di nemmeno un anno che smise di allattare per nutrire questi rampolli di città. Il piccolo reagì così: stava tutto il tempo con il capo appoggiato a uno sgabello e affondava gli occhi nel braccino, in silenzio. Ogni tanto non resisteva, e sbirciava la madre mentre allattava un altro. I suoi occhi, piccoli e immaturi, erano già lo specchio di un dolore così umano e adulto. Riesci a vederli, gli occhi di quel mio lontano parente? -

- Poi cosa è successo? -

- Il male gli impediva di mangiare. - Non dicevi nulla. - La mia trisavola smise di allattare i bambini di Torino. Non bastò: il figlio di nonna Anna, di nemmeno un anno, morì. Credevano gli fosse scoppiato il cuore. -


Andrea (@andre_anzi)


Lasagne al passato


Deglutisco.

Il salotto profuma di lasagna, ma non è come sempre.

E poi fuori c’è il nuvolo, e una giornata bianca che attraversa la tenda della portafinestra.

Il solito inverno, ma non le solite lasagne.

Tu aggrotti la fronte, aggiungi rughe alle tue rughe, mentre ricavi un angolo multistrato di pasta, liberando sugo prosciutto uova e non ricordo cosa a cascata.

La tua ricetta che in anni non ho avuto tempo di imparare, o di ascoltare.

Tranne stamattina.

Assaggi, a occhi socchiusi.

Io sto con la forchetta a mezz’aria, la stritolo: attendo il verdetto.

Due, tre masticate. Annuisci. «Buon’».

Sorrido. «Sì?»

Una ciocca grigia ti sfugge dal cerchietto. Tagli un altro pezzo. «Buon’, buon’.»

E allora ti seguo. Taglio un pezzo sugoso, lo mangio. Un po’ mi finisce sui jeans. Il sapore misto di carne uova formaggio pasta ci sta. È buona, sì. C’è da migliorare, ma è buona.

Al primo colpo.

Un po’ di fatica, ripetevi domande, le stesse, seduta col gomito appoggiato al tavolo e il grembiule sulle gambe, ma alla fine…

Mi fissi da sopra il bicchiere pieno di Coca-Cola, con quegli occhi stanchi, scuri. «L’hai comprata?» Indichi la lasagna nel piatto.

Mi viene da sorridere, ma ho una mano che mi ha appena strizzato i polmoni. «No, mammano’. L’ho cucinata con te stamattina.»

«Ah… Eh bravo, bravo.» Bevi un sorso di coca-cola. Mangi un altro boccone.

A me, un po’, è passata la fame.

Mandi giù. «Buon’. Ma chi l’ha fatta?»

«Noi.»

«Noi?»

«Stamattina.»

«Ah…»

Nel salotto, il profumo di lasagne non è come sempre. Non sarà mai come sempre.

Mi volto a guardare le tende retroilluminate dal grigio invernale.

Se le avessimo cucinate prima assieme, ora non avresti dubbi. Solo vecchi ricordi. Ormai per te funziona così.

«Mangia, a nonna.»

Sospiro. Mi volto verso il piatto. Ti sorrido. «Sono buone, ti piacciono?»

«Eh, sì. Ma chi le ha fatte?»

«Io.»

Trascorreremo un’altra ora a ripeterci. E domani manco saprai che sono passato a trovarti e che abbiamo cucinato assieme per una volta.

Resterai convinta che non siamo mai stati ai fornelli.

E io mi ricorderò tutto, anche per te.

Mi è passata la fame.

Tu mastichi un po’. Assapori questo boccone con lentezza. Mi fissi.

«Che è? Hai trovato qualcosa?» Se è così, meglio se non te lo ricordi.

Scuoti la testa. «Sono come le mie. Le ho fatte io?»

Un solletico lungo la schiena. Mi si stampa un sorriso in faccia. «Noi, mammano’. Noi.»

Annuisci. «Bravo, Andre’. Bravo.»



Moreno (@morenomigliaccio)


La tovaglia di pizzo bianco mi ricordava quella usata da mia nonna, per gli eventi significativi di famiglia. Sulla tavola rotonda erano presenti una vastità di piatti tra primi, secondi e dolci, ognuno più o meno elaborato. Il biglietto all'entrata diceva di sedersi sulla sedia indicante il proprio nome. Mi sedetti su quella posta a sud rispetto all'entrata principale, ma la scelta non era ampia, solo due postazioni contando la mia.

Che posto strano, perché mi ero lasciato convincere a rispondere a quell'annuncio stravagante.

"Al diavolo ai soldi vado via" mi diressi verso l'uscita ma la porta era chiusa dall'esterno. Ero bloccato in quella stanza.

"Merda, fatemi uscire!" cominciai ad urlare battendo i pugni sulla porta di ferro.

Nonostante le urla nessuno rispose.

Ad un certo punto si aprì una botola dal soffitto e dall'alto venne calata una persona, non si vedeva il volto perché era coperto da una maschera dalle sembianze di una volpe. Solo la bocca era libera.

"Chi sei? Che ci faccio qui?" cominciai ad urlargli contro con voce tremante.

Il tizio misterioso una volta sceso a terra mi fece un gesto di accomodarmi sulla sedia. Seguii il suo invito e mi sedetti. Gli porsi nuovamente le stesse domande ma nulla. Rimaneva in silenzio, e con un altro gesto della mano destra diede inizio al banchetto. Era una persona elegante e raffinata ma appena iniziò a mangiare, quel suo modo di essere scomparve. Si trasformò in un vero e proprio animale, trangugiando il cibo senza masticarlo e prendendolo con le mani. Una gran quantità finiva al suolo, non credevo ai miei occhi, era una scena così surreale che rimasi bloccato a guardarlo incredulo. Un rumore catturò la mia attenzione. Dal pavimento spuntò un'enorme griglia le grandezze erano simili a quelle di un uomo di 1,80cm circa. Il cuore mi balzò in gola capii che il piatto forte ero io e che quella era per me una sorta di ultima cena. Il tizio con la maschera di volpe estrasse una pistola me la puntò al volto e sparò. Istintivamente mi portai le braccia a copertura del volto. Dovrei essere morto invece nessun proiettile attraversò il mio corpo, tolsi le braccia dal volto e vidi che dalla pistola uscì una bandierina con su scritto "Tanti auguri! BANG!"

La porta di acciaio si aprì ed entrarono tutti i miei amici urlando BUON COMPLEANNO! Dietro c'era anche la mia ragazza che corse e mi strinse forte a sé, mi stampò un bel bacio sulla bocca e mi diede una bella fetta di torta con la panna.

"Siete delle merde ho perso 10 anni di vita!".

Quel compleanno non lo scordai mai, ma gli altri furono più sobri.



Efed (@the_efed)


Il pasto scomodo


Francesco (FRA) e Agamennone (AGA) erano due giovanotti cresciuti a Offida un piccolo e caratteristico borgo a due passi dalla costa marchigiana. Una mattina soleggiata, verso le undici, Agamennone uscì in strada, attraversò la via centrale saltellando rumorosamente come un cavallo sul ciottolato, poi si lasciò il paesino alle spalle, superò l'imponente chiesa di Santa Maria della Rocca, soffermandosi a guardare le colline sottostanti, poi discese il solito sentierino ripido, quasi rotolando, ed in un lampo si trovò davanti al Casale di Francesco, circondato da distese di vigneti.


Agamennone era un ragazzoccio robustino, con capelli un po' unti e raccolti in un codino, un simpatico naso a patata, barbettina incolta e due belle guancette rosse come prugnette poco mature.

Giunto davanti al casale con tutta la voce che aveva in corpo iniziò ad urlare...


AGA: "Franceeh! Ah Francescoooh?! Franceeeh!"


……..


Francesco, mio figlio, era un giovanotto magrolino e stempiato, dal naso tagliente come il becco d'un falco, con il viso sbarbato, una camicetta a quadri rossa e grigia.

D'improvviso s'affacció alla finestra...


FRA: "Eh che c'è?"

AGA: "Weh Francè! andiamo in Abruzzo?"

FRA: "Come no?! Menni ascolta, però la pigli tu la macchina?"

AGA: "Eh bello purtroppo no! i vigili m'hanno tolto la patente! "

FRA: "Ma no?"

AGA: "Ma si! lo scorso sabato ho bevuto tre litri de passerina ed ho centrato il portone del teatro comunale con la Micra!"

FRA: "Ahia! ... Vabbè dai, dammi mezzo quarto d'ora, prendo qualcosa da magná e andiamo in Abruzzo col trattore"


- IL PASTO -


Erano partiti con il vecchio Ford di mio marito alle 11.35 dal casale. Ci stavano in due, abbastanza comodi. Certo, Menni si spaccava il culo appoggiato per un’ora e mezza sul parafango metallico, ma cavoli suoi.

Mio figlio aveva preso un bel po' di roba da mettere sotto ai denti, tra salumi, formaggi e avanzi del pranzo di ieri sera. Era tutto nel cassone sul retro.

Andavano piano, intanto in quella stagione non c'era né fretta, né traffico. Però, sapevano che in Abruzzo avrebbero potuto intrattenersi con qualche giovanotta. Qua dalle nostre parti le signorine si danno troppe arie quasi come se si credessero del nord. Lì invece le persone sono un po’ come gli orsi, un po' più selvatiche e un po' più genuine.


AGA: "Francè fa i complimenti a tua zia per queste olivine, sono cremose e croccanti anche mangiate fredde"

FRA: "Il suo segreto è metterci dentro un po' di macinato di coniglio ed un cucchiaio di cacao"

AGA: "Beh qualunque cosa ci abbia messo dentro, era quella giusta!"

FRA: "Bene, già che sei lì che ti sfondi le chiappe, prendi qualche fetta de pane sciapo e spalmace un po' de salamino"

AGA: "Certo fra, ecco il salame... ma nun te scaldare!"

FRA: "Se guardi nella borsa di juta nel cassone lì dietro, ho messo pure della ricotta fatta ieri mattina col latte delle capre... l'ho insaporita con alloro ed erba cipollina, dimme un po' come te sembra..."

...gnam..gnam...gnamm...


AGA: "Beh, la ricotta col salame spalmabile è la morte sua, tuo padre va sempre a prenderlo da Silvione?"

...gnam..gnam...gnamm...


FRA: "Come no! Silvione l'intramontabile, quel che ce mette nei suoi salami non è dato saperlo, ma comunque è arte!"

AGA: "È scienza!"


Il trattore, con la grazia di un vecchio carro di legno trascinato dai buoi, percorreva lentamente quasi in solitudine le colline verdeggianti della provincia picena, a tratti si intravedeva in lontananza la striscia blu del mare.

Il pasto genuino intanto proseguiva.


FRA: "Menni che ne dici di passarme un po' de aranciata? Ne ho una bottiglia lì dietro, fa in fretta prima che me soffoco con queste patate!"

AGA: "Certo mio signore al vostro servizio! Comunque anche le patate con le alici de Grottammare glie so' venute bene!"

FRA: "Puoi dirlo forte! quelle alici l'ha pescate Aldo, l'ex sindaco, sono anni che fa il filo a mia zia, ma nemmeno quando era sindaco è riuscito a pigliarsela!"

AGA: "Tua zia cucina bene ma c'ha un brutto carattere"

FRA: "Poteva farse sora! almeno un posto in paradiso glielo davano d'ufficio anche col carattere che se ritrova, e invece niente!"

AGA: "Ma tu sei andato a messa ieri mattina?"

FRA: "Come no? C'era don Giulio che ha fatto addormentá mezzo paese con quella storia del grano e della pula"

AGA: "Oh prendi un pezzo de torta va! Che fra un poco t'addormenti pure tu e cadiamo nel Tronto col trattore"

FRA: "E questa torta da dove è comparsa?"

AGA: "Cosa credi che me porto a fa' lo zaino dietro? questa è torta bona de mia madre, fatta con uva passa e prugnette selvatiche, c'ho pure na fiaschina de grappetta de prugnette per concludere!"

FRA: "Ah Menni... - …gnam gnam mmmh... - tu stai a bere troppo ultimamente, mo', cun la patente come fai?"

AGA: "Eeh, pensavo di ripararglie la porta del teatro che ho sfasciato, così magari i vigili chiudono n'occhio, tanto lo sai che so' bravo col legno. Da ragazzetto lavoravo alla bottega de Benedetto!"

FRA: "Forse s'eri davvero bravo, da Benedè ce lavoravi ancora adesso, invece de sprecá tempo all'università de Ascoli"

AGA: "Mamma quanto sei schietto oggi Francè! Sarai bravo tu a fa lo schiavetto nell'azienda de babbo a 31 anni sonati!"

FRA: "Oh ma guarda il caso! siamo in Abruzzo, sai ‘na cosa? scendi e trova il modo per tornartene a casa da solo! Io il trattore sotto il sedere c'è l'ho!"

AGA: "Ah è così? E mo allora vedrai che te combino! Tante care cose Francè!"

FRA: "Come no? Tante care cose Agamè!"


I due giovanotti paesani si separarono oltre il ponte sul fiume Tronto, nessuno sa cosa ne è stato di Agamennone e della sua esistenza, forse ha trovato la sua fortuna o la sua rovina in Abruzzo. Quel che è certo, è che quel “pasto scomodo”, fu l'ultima gita che lui e mio figlio fecero assieme per molto, moltissimo tempo.


In quanto a me, continuerò a vegliare sulla mia famiglia, sul mio borgo e sulla mia provincia come ormai faccio da anni, da quando sono diventata… troposfera.



Francesca (@penna)


Nutrimento infedele


Era magro, scavato sulle guance, come se per l’occasione non mangiasse da mesi, o anni. Ero fermamente convinta che per il suo passato avrebbe potuto sfamarsi in qualsiasi momento con qualsiasi pasto, ma le sue parole mi fecero intendere che stava digiunando da diversi anni per via di un cambio alimentare dovuto ai ritmi intensi del suo nuovo lavoro.

La compagnia limitata all’uso delle sole parole, fino a quel momento schermate da caratteri luminosi, sembrava essere garanzia di fallimento, così concordammo per vederci a pranzo, dove una spaghettata e un gelato avrebbero rallentato, volutamente, pensieri e parole.

Il cibo era mediocre, ma non mi sento in grado di giudicare, in quanto le uniche portate che non ho avuto il coraggio di assaggiare furono gli occhi e la bocca: i primi, coperti da lenti scure a sua discolpa per la troppa luce, a mio sentore per osservarmi senza mettermi troppo a disagio. La seconda era impegnata in un lento tango che prevedeva il parlare e il mangiare.

Mi imbarazzai più volte, paragonando la sua sicurezza nella vita alla mia prematura nascita, e mi controllai nell’azione di introduzione del cibo nella mia bocca: non doveva sembrare né troppo sensuale e nemmeno un gesto dal quale poteva trasparire confidenza. I suoi racconti erano troppo saporiti da un tono di voce controllato per l’occasione per essere considerati in amicizia, ma la mia presenza non fu mai confusa con quella di una portata, fui più simile a quella di un centro tavola scelto con cura per l’occasione.

Col tempo capii che quella conoscenza occasionale fu paragonabile allo stesso cibo: ci entra dentro e ci cambia, alcune volte ci emoziona e altre ci brucia. Anche se concretamente non tradii il mio partner, quello fu il sesso più eccitante della mia vita.

Durante il mio viaggio di ritorno in treno, sanguinai precocemente, come una bestia da macello.

Lui non pagò per la mia carne, fui io a farlo, con la mia innocenza.



Igor (@gribyslab)


Werner: L'estate è quasi finita.

Samuele: E con questo?

W: Beh, dovrebbe darti da pensare.

Samuele beve un sorso di vino rosso da un calice appannato. S: Non credo di volerlo fare, lei non sarebbe mai morta per me.

W: Dove vuoi arrivare con questa uscita?

Samuele emette un sonoro rutto.

S: Non voglio uscire dall'estate, tutto qui.

W: Caro, nessuno lo vorrebbe.

S: Mi puoi passare anche un po' di purè?

W: Ecco, Samu.

S: Ottimo, è davvero ottimo.

W: Samu, hai ancora da rispondermi.

S: Sì, sì.

W: Mi brontola lo stomaco, te ne posso chiedere un pezzo? S: Ma sei serio, figlio di puttana? Il mio ultimo pasto e ne vuoi un pezzo?

W: Sì.

Samuele alza gli occhi al cielo.

S: Tieni la tua razione, dannato bastardo.

Werner addenta un pezzo di carne.

W: L'estate è qu...

S: ...quasi finita. Lo so, me l'hai ripetuto almeno quindici volte. La mia condanna sta arrivando.

W: Quindi cosa intendevi con 'lei non sarebbe mai morta per me'?

S: Quello che significa.

W: Peccato però che sia stata tu ad ammazzarla.

S: Già.

W: Già, già...

W: ...ma ti mancano mai quei giorni? Dev'essere stato bello sedersi in quella tua terrazza di legno vicina al Mississippi. Sorseggiare un daiquiri insieme alle amorevoli coccole di Anita. Lo dirai mai perché l'hai fatto?

S: Non ho fatto niente.

Samuele addenta una costina di maiale, la mastica con gusto.

W: Tanto è inutile.

Werner si alza dal tavolo della mensa e si allontana. Una volta arrivato vicino alla porta d'uscita si ferma.

S: Colpa di André.

W: Come hai detto?

S: Colpa di André.

W: Non so come tu sappia il soprannome del mio piccolo ma è meglio se taci, a meno che non si voglia anticipare la tua pena di morte.

S: Io conosco i versi di tua moglie. So come le piace godere. La sto immaginando proprio ora.



𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼

4 settembre 2023 - 18 settembre 2023

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