Gli altri
- Igor Gribaldo

- 6 ore fa
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La consegna
I Natali degli altri
Osserva un Natale che non è il tuo: quello di un vicino dietro una finestra illuminata, di una cassiera che lavora fino a tardi o di un viaggiatore solo su un treno notturno. Racconta il suo punto di vista senza mai nominare la parola “Natale”. Fallo intuire dai gesti, dai suoni, dai silenzi.
Teodora (@teodora.anton)
Il non-Natale
Quel giorno non aveva senso di esistere, per lui.
Era uno dei tanti giorni che si susseguivano senza alcun intralcio nella sua insignificante vita.
Barricato in casa, cullato dal silenzio di una figlia lontana, distante anni ‘che se la vedesse tra la folla, difficilmente saprebbe distinguerla. Nessuna luce traspariva dalle persiane abbassate, se non fosse per quel solito mozzicone sempre acceso: l’ennesimo, il penultimo fra tanti ultimi.
Per lui quel giorno era una sorta di condanna e, presto, sarebbe diventato anche il più triste…
Ma accadde qualcosa d’impensabile, una magia, una stella caduta dal cielo proprio tra le sue braccia.
Arrivò.
Arrivò lei che, con una candela dalla fiamma stanca e tremolante, illuminò quel silenzio, dandogli soave voce.
- Cosa vuoi?
- Voglio che accenti la luce che hai ben nascosto dentro di te e, se non vuoi farlo tu, allora sarò costretta a farlo io. Con tutto sto buio mi meraviglio che non hai ancora sbattuto la capoccia contro qualche mobile!
- Come hai intenzione di farlo…. Cioè, di accendere la luce?
- Di certo non c’è bisogno di grandi elettricisti. Uhm… userò questa piccola candela. Tu dovrai soltanto esprimere un desiderio e, quando avrai finito, dovrai spegnerla soffiandoci sopra.
Un abbraccio e tutto divenne chiaro.
Era proprio lui l’unica persona che poteva illuminare quel percorso che avrebbe condotto un padre rassegnato dal destino verso una figlia che la vita e le sue peripezie la portarono a diventare “orfana” di padre.
Nella testa, un pensiero: “Falle arrivare la neve delle mie montagne, il vento freddo e il mio abbraccio caldo che la difenderà da ingiustizie e maldicenze.”
Forse basta solo questo per dar vita ad una magia, custodita gelosamente nella memoria d’un uomo che ci ha sempre creduto senza mai arrendersi.
Elena (@pdorafigliadiknaus)
Venti e bisaccia, tempesta e burrasche
Venti gradi, qui, di fronte alla panadora, tra la cucina e l’ingarbugliata matassa di tavoli con numeri dati nel modo più scomodo possibile da ricordare. Mentre fuori il nevischio non s'attacca e il gli avanzi di brasato si seccano all'aria, Laelo lascia gli ultimi piatti sporchi per il turno serale.
Sa che la sua sbadata collega gli avrebbe poggiato una pila di piatti sporchi nel momento in cui lui avesse deciso di togliersi le scarpe da lavoro e indossare le sue pantofole-da-pausa.
La ciabatta in questione si distingue per essere molto più malleabile, pieghevole di una defonseca classica, in modo tale da essere comodamente inserita in una tasca dello zaino. Nella pausa, per l'appunto, tra il turno del pranzo e quello della cena la titolare permetteva a Laelo di restare in negozio e trasformare il bancone in salotto. Copertina e abbonamento netflix inclusi;)
Il genetliaco del figlio del signore non poteva essere più confortevole di così, lontano dalle afose tavolate dei suoi parenti in madrepatria.
Venti gradi, lì, dove le palline dell’albero raffigurano un Papa Noel in costume da bagno con maschera e boccaglio e la renna corre a mettersi le pinne.
L’abete brilla, le lucine lucinano, Laelo quasi si assopisce, quando all’improvviso il dovere lo chiama: videochiamata dalla mamacita in arrivo.
Le nipoti ridono perché il gatto ha un collare con un Babbo come ciondolo, e anche quest’anno la nonna griglia l’asado e nessuno sa come faccia la marinatura a essere così perfetta. Feliz Navidad.
Igor (@gribyslab)
Stava passeggiando nel centro di Ivrea, riflettendo una volta di più su come sarebbe stato il mondo se Adriano non fosse morto così presto. Un pensiero ossessivo che la sua mente ripeteva fin da bambino. Ricordava le lettere degli auguri scritte con la Valentine di papà oppure le volte in cui faceva finta di fare complessi calcoli con la Logos, il fascino e l'ossessione per quella tecnologia canavesana erano cresciute in lui per tutta l'infanzia. Si era riempito di libri che raccontavano quella storia, avrebbe potuto tenere seminari di più giorni sull'Olivetti.
Qualche minuto prima era solo in casa. Si era appena acceso la seconda canna della giornata e, affacciandosi alla finestra, aveva visto scendere qualche batuffolo di neve. Gli mancava la neve, non era solo per la nostalgia nei confronti dell'infanzia, era più un voler simulare di entrare nella triste notte del film La Freccia Azzurra, sedersi nella neve della piazza centrale e chiudere gli occhi.
La notte era silenziosa, sentiva un vociare provenire da un'altra epoca, quasi come se stesse accadendo ora. Il tempo è un cerchio piatto. Sentiva le idee che erano nate qui e sentiva il suono dei tasti premuti.
Fece un ultimo tiro e poi gettò la cicca a terra, non aveva voglia di finirla, aveva fumato troppo oggi. Decise di proseguire ancora verso il centro, man mano che incontrava i luoghi storici la sua mente metteva in play le curiosità che aveva raccolto negli anni. "Dovrei provare a farlo diventare un lavoro, se avessi un po' di grana per staccarmi da quella fabbrica di merda" pensava tra sé e sé. Raggiunse Piazza Castello e si mise a guardare la città d'alto. Era uno scenario che lo rendeva triste (ma in fondo si era trasferito lì proprio per quel motivo). Guardò il cielo, ora la nevicata si era intensificata. Distingueva le luci degli alberi colorati e accesi all'interno delle case sotto la Piazza. Si immaginava famiglie sedute a tavola e bambini che pregustavano i regali. Da qualche parte, soffocata dalla neve, arrivava una melodia stucchevole, quella promessa di doni e uomini barbuti che scendono dai camini.
Quel briciolo di bambino che ancora viveva in lui gli suggerì che sì, l'aveva visto arrivare. Era lì, in ogni chicco di neve che si posava sulle macchie scarlatte, a terra, di fianco a lui.
Gabriele (@Gabriele Amante)
Slava Otcu i Sinu i svjatomu Duhu
Alioscia pregava a bassa voce, quasi sussurrando, stringendo tra il pollice e l’indice violacei che sbucavano da un guanto di lana malconcio la stampa di un’icona del Cristo Pantocratore. La mano gli tremava per il gelo che dall’esterno penetrava attraverso mille spiragli nell’antro diroccato in cui si nascondeva ormai da ore. Una volta quel buco era stato un dignitoso appartamento al secondo piano di una krushovka in cemento armato, asettica quanto maestosa, brutale, residuo di tempi ben più gloriosi e terribili. Un vecchio termometro appeso alla parete segnava meno venti gradi centigradi; dai fori sul muro si intravedeva un paesaggio urbano ricoperto da una coltre bianca e avvolto da una sottile nebbia invernale. La neve ormai ghiacciata sugli edifici in degrado, insieme al silenzio ovattato delle strade deserte, trasmetteva un inaspettato sentimento di pace, in netto contrasto con la situazione precaria in cui Alioscia e i suoi compagni erano bloccati da giorni.
A intervalli regolari, il soldato lanciava un’occhiata alla ricetrasmittente, in attesa di ricevere un ordine, o un segnale, o qualunque cosa fosse in grado di spezzare quello stallo sempre più logorante. Ogni tanto, fuori, la quiete veniva interrotta dal ronzio che annunciava il passaggio di aggeggi demoniaci e mortiferi, ma Alioscia quasi non vi faceva più caso.
L’uomo finì di recitare la sua preghiera e ripose l’immagine sacra in un taschino della mimetica dove conservava anche una foto sgualcita di Lisa, la sua dolce Elizaveta. Era solito guardarla ogni sera prima di addormentarsi, e negli ultimi due anni non aveva mai mancato l’appuntamento. Il suo pensiero corse ai capodanni passati insieme sui monti ad Est o nella piazza maggiore della capitale, dove aveva visto gli alberi più alti e più decorati della nazione. Pensò al pane caldo, ai suoi nonni, a tutti i fiori che aveva regalato a Lisa nelle occasioni speciali, o per farsi perdonare qualche passo falso .
Poi restò così, un braccio appoggiato al calcio del vecchio fucile e l’altro adagiato sulle ginocchia rannicchiate, e passarono le ore, e il buio calò su quel freddo 6 gennaio.
All’improvviso, anzi, un poco alla volta, un suono molto diverso dal mormorio metallico degli strumenti di morte cominciò a riempire i silenzi della notte. Un canto distante, quasi provenisse da un Altrove, giunse alle orecchie stanche del militare. Alioscia non riconobbe subito la melodia, ma un senso di famigliarità destò in lui la voglia di scoprirne l’origine. E così, levatosi in piedi, prese con sé l’arma e il ricevitore e lasciò il suo nascondiglio. Scese quel che rimaneva delle scale del condominio e raggiunse la strada gelata, poi s’incamminò nella direzione del punto da cui gli pareva provenissero le voci. Pur cosciente del pericolo a cui si stava esponendo, si sentiva al sicuro: quella notte, ne era certo, nessuno gli avrebbe fatto del male.
Camminò per circa due chilometri, forse tre. E più si avvicinava alla fonte della musica più le membra e il cuore si scaldavano, il grigiore delle ultime settimane sembrava evaporare e Alioscia assaporò timidamente una sensazione dal gusto remoto e dimenticato. In assenza di un termine più adatto, pensò di chiamarla beatitudine.
Seppe di essere arrivato a destinazione quando di fronte a lui comparve un’antica chiesa in legno scuro, e allora capì: quelle che aveva udito erano le note di canti natalizi ortodossi, quelli che i popoli più a sud chiamano colinde. Erano i nemici a cantarle, in quella notte di veglia e attesa per un mondo nuovo, attesa di salvezza. Anche l’ultima ombra di paura svanì; il soldato rimosse toppe e insegne dalla sua uniforme, e senza rimuginare oltre entrò nel tempio. Tre volte fece il segno della croce, e sollevando lo sguardo fu inondato dallo splendore dell’oro di una meravigliosa iconostasi. Alioscia si commosse alla vista del Redentore e della Vergine, le lacrime gli bagnarono il viso, e per la prima volta in ventiquattro mesi si sentì a casa. Si confuse tra la folla di fedeli, e iniziò a cantare.
Giacomo (@giacomo.pirovano)
LA TUA MACCHINA
Il telefono scatta nel buio della tua stamberga. Un monolocale bianco e ammuffito, al centro un triste divano letto aperto troppe estati fa e mai più richiuso. Nel freddo silenzio si diffonde quell’odiosa sveglia a mo’ di carillon che hanno tutti – le nove del mattino. Il disgusto ti risale dalle viscere, il dolore ti martella la testa e le gambe reclamano riposo. Conosci bene quella forma di indisposizione; ti distruggi fino all’alba, dormi poche ore e ti illudi di poter tirare così tutta la vita; non lo ammetti, ma credi che il mondo sia ancora e comunque tutto nelle tue mani. Getti per terra la maglietta di una band di cui sai a malapena il nome, l’unico indumento che avevi sotto le coperte. Un vecchio disperato regalo. Entri nella doccia per levarti il sudore di quella notte. Non mangi, decidi che fumerai tutta la mattina per chiudere lo stomaco fino alle undici, quando sarai costretta a ingurgitare qualcosa assieme alla brigata di sala. Butti addosso la giacca di due taglie più grossa di te e che ti ostini a non cambiare, il borsone è già fatto, ti serve quello che avevi la sera prima.
La via del centro satura di addobbi spenti ti è indifferente, come tutte le celebrazioni, come tutti i simboli. Ti muovi veloce fino al ristorante, perché sei sempre in ritardo e così hai una scusa in più per non incrociare nemmeno per sbaglio lo sguardo dei passanti. Il tuo capo in crisi di mezza età indossa un berretto rosso, distribuisce pacchetti a tutto lo staff. Ti chiedi per l’ennesima volta che cosa ci fai ancora lì, un’altra parte di te lo sa e ti dà una specie di risposta. Appena uscita dallo sgabuzzino, che utilizzate per cambiarvi e legarvi i capelli, ti viene richiesto di occuparti della musica, specificando che sia una playlist a tema. Reprimi tutto quello che pensi e fai agire gli arti e le dita, come se il tuo corpo fosse un automa che osservi davanti a uno schermo. È solo il primo compito di quella festiva giornata di lavoro, affronterai tutti gli altri allo stesso modo.
Il tuo essere si muove con disinvoltura, va a colpo sicuro se deve prendere qualcosa dai cassetti o dietro le ante della panadora. Sente solo il tintinnio delle posate, il fruscio delle tovaglie, le malizie, i pettegolezzi delle tue colleghe; dalla cucina, assieme a qualche risata, provengono le spadellate e le battute appena comprensibili dei cuochi asiatici. I profumi cominciano a diffondersi in tutta la sala mentre scendono e si accomodano i primi avventori. È tutto prenotato da tempo, decine di coperti. Il tuo robot prende ordini, porta la comanda a destinazione, serve, mentre le famiglie si scatenano in un baccano insopportabile che sale di intensità col passare delle ore e il consumo di etanolo. La macchina è impeccabile nel presentare l’omaggio della casa, mesce il vino scelto dal capofamiglia con sicurezza, espone accuratamente ogni piatto in tutte le sue componenti. Non gli sfugge nulla della complessa architettura degli antipasti, come della provenienza delle materie prime alla base dei primi e dei secondi: sa sciorinare tutte le loro caratteristiche e peculiarità ai palati più fini. Oramai serve all’italiana con maestria, ma quest’anno il tuo capo in crisi di mezza età ne ha pensata un’altra: davanti a ogni tavola, il ginoide dovrà porzionare con le clips la faraona direttamente sul guéridon. Sei stata promossa a chef de rang per la tua diligenza, dunque tocca alla tua macchina il servizio alla russa. Gli uomini sorridono mentre osservano attentamente i suoi movimenti. Riceverà complimenti e mance, accompagnate dai loro più sinceri auguri.
Silvia (@rougewine)
La festa invisibile
Sono le 20.15. Il reparto è vuoto, le visite finite, e il silenzio ha preso possesso della corsia.
Non è il silenzio di ogni notte: è un silenzio che pesa e consola insieme, come se custodisse qualcosa di segreto.
Intorno a me lenzuola bianche, odore di disinfettante, passi lontani che si dissolvono.
Mi rifugio alla finestra: fuori i bambini avvolti nelle sciarpe di lana corrono tra le luci, uomini e donne stringono pacchi brillanti, e i balconi delle case, avvolti da fili luminosi, sembrano danzare una musica che non ha bisogno di strumenti.
Guardo quasi sempre la stessa finestra: dietro le tende azzurre una tavola imbandita, figure che si abbracciano, altre che si siedono davanti a piatti fumanti.
Questo posto separa tutte le persone che sono qui dentro, dal mondo di gesti e suoni che vedo lì fuori, ma non impedisce al cuore di percepire il ritmo della festa.
Qui dentro il tempo scorre diverso.
Nastrini rossi e palline colorate provano a spezzare la monotonia delle pareti, e tra aghi e garze si nascondono sorrisi, attenzioni, presenze discrete.
Non è un ritmo minore, è solo un altro modo di celebrare; perché la luce che vedo fuori è la stessa che brilla negli occhi di chi riceve un gesto di cura. E quella sera, più di altre, ogni sorriso diventa dono.
𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼

4 dicembre 2025 - 21 dicembre 2025




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