top of page

𝕋𝕒𝕣𝕠𝕥



© Elena Carta (@carta_elena)


La consegna


Scegliete un Arcano Maggiore della carta dei tarocchi marsigliesi (non le varianti) e fatevi ispirare per una poesia/lirica o un racconto breve di massimo 1000 parole.




Silvia (@rougewine)


L’appeso


Negli occhi degli assettati si trova la verità

perché la lingua sa essere bugiarda,

le labbra diffondono amarezza negli stolti

e anche ridendo

il cuore può essere triste.


Carta dei Tarocchi scelta: L’Appeso





Greta (@gretaabrunoo)


L'APPESO


…Pensando, ripensando e razionalizzando, la luce svanì e il buio conquistò la parte principale del teatrino così poco vitale che già era in corso.

Sola, solamente per una frazione di secondo, o per una vita intera, non sarebbe cambiato nulla. Il vuoto provato, abbastanza da non essere sopportato, o sopportarsi…


Angelica non aveva più idee. La vana ricerca della felicità non stava portando frutti da ormai troppo tempo, e questo poteva essere un problema. Oppure no. Questo oblio in realtà quasi le piaceva. Che poi, la realtà! Quanto odiava questa parola. Così inclusiva teoricamente, ma a fatti? Signore e signori, in fondo la realtà è semplicemente di chi la vive, e la sua non è sicuramente la tua.


…Diavoli, angeli, papi e papesse. L'inferno divenuto Terra e la terra cenere.

Un connubio divino tra piacere e sofferenza…


Abbastanza pazza per avere un cartellino, non abbastanza per essere trattata da tale.

La ragione non puntava più nella sua direzione. Disconnessa, intermittente, geniale.

La fine era inizio e l'inizio il termine di un cammino, impanicato, osservato da ombre rigide e luci oscure.

Con occhi persi ascoltava un canto lieve, così potente da scuoterla.

Che tutte le maledizioni tirate si fossero ripercosse contro? Loro sapevano, Loro sentivano.

Angelica non più nella sua prima vita, ora sguazzava in un mondo di follia, che non riconosceva.


…Sapere, salire, stendere, appendere, pendere, apparire…


Volta al buio dell' incertezza, Angelica cercava conforto nel brulicante mondo della Luce.

In solitaria camminava bruciante, leggendo messaggi nascosti ai più.

Una gemma le diede la direzione.

L'Alto.

Ma cosa voleva dire? Perché? Dove sarebbe dovuta salire?

Tutte queste ruminazioni senza sapere che in realtà si era già innalzata verso l'Ignoto e che non sarebbe potuta scendere presto.


Carta dei Tarocchi scelta: L’Appeso





Zamu (@mister.zamu)



Il Matto di Montanaro

24 OTTOBRE 2019 Da sempre, il Canavese mi è apparso come una terra magica, ricca di misteri e segreti. Mi piace immergermi nelle sue profondità, nelle sue ragnatele di curiosità che mi stupiscono, maledettamente, ogni volta. Ho amato scoprire la storia del Dispensario di Orio, immerso nell'oscurità di una foresta tetra, in un passato di peste e mancate ristrutturazioni. Mi sono congelato, di fronte a tutte le orribili storie della Casa del Mostro nella mia amata Cerone, tra omicidi, droga e prostituzione

Un giorno, il destino mi ha portato a una scoperta eccezionale: era ottobre 2019, avevo scoperto una storia piuttosto peculiare. Un clochard, tutto matto, viveva a Montanaro, in una catapecchia del tutto originale, in cui aveva scolpito graffiti con previsioni nefaste per gli anni a venire.

Vedete, sono una persona razionale, scientifica, che crede ai dati e agli esperimenti empirici, amo le realtà logiche e razionali. Ma in un angolo del mio cuore, sono sempre stato attratto da queste storie così assurde e illogiche. Il mio animo ha bisogno di un mondo non solo logico e dettato da leggi ferree, ma si vuole sentire immerso in una sensazione di mistero, capace di farti sentire vivo, con una strana contorsione delle viscere.

Il destino volle che poco dopo conobbi una ragazza di Montanaro: Serena. Una persona molto gentile, dai riccioli d’oro e un cuore malato per l’avventura. Non mi lasciai scappare quella coincidenza e le chiesi subito di aiutarmi a scoprire dove viveva questo "matto", le sue incisioni e la sua casa. Di fatto, organizzammo tutto per la settimana seguente.



31 OTTOBRE 2019 La catapecchia del clochard sembrava un misto tra un fungo e il rifugio di Sauron. Era ricca di frasi che mi sembravano assurde: "9 marzo 2020", "salvatevi", "scappate", "COVID". Queste scritte si diramavano per tutte le pareti creando ghirigori e simboli simili alle rune celtiche. Mi mancava il respiro, sentivo le stesse emozioni di Shining. Ansia e stress mi stavano attanagliando lo stomaco come una morsa di ferro.

Non ce la facevo più, uscimmo dalla casa e mi sentii molto meglio. Serena mi mostrò allora i graffiti del matto. Si trovavano distanti 800 metri, su un muro eretto nel centro del giardino. Sul muro, era rappresentato un unico e grosso graffito, che rappresentava una scena terribile…

C'erano tante città vuote, spente, come se la morte fosse caduta su di loro. Un velo di silenzioso terrore. La gente chiusa nelle sue case si contorceva dalla solitudine, dal dolore e dall'isolamento. Per le strade, c’erano solamente i mezzi dell'esercito e ambulanze. Dei della morte, con lunghe falci, erano sparsi per i cieli, con i loro teschi lugubri e solcati. Urla silenziose e pianti tristi erano ovunque. Piccoli virus si diffondevano per tutta la città, quasi dei piccoli serial killer, in agguato, un nemico silenzioso e invisibile. Le città sembravano destinate a una lenta e inesorabile distruzione.

Persi tutte le forze, mi accasciai per terra. Avevo una sensazione di nausea, che mi attanagliava le pancia. Volevo vomitare questa ansia che come un nido di vespe mi pungeva tutto il corpo.

Serena lo notò e mi portò a casa sua.

Con una buona cioccolata e qualche biscotto, cominciai a riprendermi, mi sentii come se fossi stato in un incubo. Serena mi disse che lei non aveva sentito niente, anzi per lei erano solo graffiti e scritti di un matto.

Passarono le ore a casa sua e a fine serata salutai Serena e la ringraziai per essere stata la mia guida, anche per avermi aiutato dopo il mio shock. Non avevo ancora compreso cosa avessi davvero visto quel giorno.


31 DICEMBRE 2019 Leggo il titolo del Post:

31 dicembre 2019, la Commissione Sanitaria Municipale di Wuhan ha segnalato all'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) un cluster di casi di polmonite ignota nella città di Wuhan, nella provincia cinese di Hubei.


Mi sono ricordato della mia avventura a Montanaro e questa notizia mi fa venire in mente tutti quei brutti ricordi e sensazioni. Magari mi sono solo fatto suggestionare… Sarà la classica malattia di stagione passeggera!



9 MARZO 2020

Il Lockdown ha inizio...



Carta dei Tarocchi scelta: Il Matto





Igor (@gribyslab)


Liberaci della tua stupidità


Ottenere un cambiamento pesante.

Questo era

il mio obbiettivo.

Stringere i denti di fronte all'umiliazione,

solo per poter dire ce l'ho fatta.


Scambiare i giorni con le notti.

Approcciarmi al tuo caos, vedendo esaurimento e timore.

Timore verso la solitudine e verso l'abbandono.


L'anno '23 sarà ricordato per te, che tu lo voglia o no.

Bloccare e allontanare.

Poi ritornare per interessi.


Banale.

Ecco cosa sei.


Mi hai detto "lei ha paura del cambiamento."

Ma sono io ad averti

sconvolto.



Carta dei Tarocchi scelta: La Torre



Gabriele (@Gabriele Amante)


L’Eremita

o L’Anabasi (Convergenze tra Lovecraft, Gregorio Magno e Comando Praetorio)

Non so dire il motivo per cui quella notte mi trovai laggiù, tra le macerie di una città le cui fattezze non mi riusciva in alcun modo di riconoscere. I profili di ciò che mi circondava emergevano dal buio soltanto grazie al debole chiarore della mezzaluna, che splendeva in un cielo senza nubi. Per strada non c’era anima viva, solo le cupe ombre proiettate sul terreno da vecchi edifici in decadenza, che parevano abbandonati da decenni. Non avrei saputo indovinare a quale epoca risalissero quelle abitazioni: ad antichi motivi architettonici si sovrapponevano decorazioni dall’aria vistosamente più moderna. Vagai per un tempo indefinito tra le vie di quel villaggio fantasma, chiedendomi come vi fossi arrivato, finché d’un tratto notai da dietro un capanno il riflesso tenue e distante di una luce. Confortato dalla speranza di trovare qualcuno, mi diressi a passo svelto verso l’aura luminosa, che tuttavia sembrava affievolirsi man mano che mi ci avvicinavo.


Una volta che ebbi superato la baracca, scoprii finalmente la fonte di quel bagliore. Alla mia sinistra, lontano una dozzina di metri, si ergeva di spalle una figura avvolta in un lungo mantello scuro. Con la mano destra teneva sollevata una piccola lanterna accesa, mentre la mancina impugnava un bastone da pellegrino. A quella distanza e da quella prospettiva non potevo distinguere i lineamenti del suo volto, ma la schiena ricurva e i ciuffi di una barba folta e luccicante mi suggerirono l’età piuttosto avanzata dell’uomo. Lanciai un urlo per richiamare la sua attenzione, ma il vecchio non rispose. Camminando lentamente, si stava portando fuori dal centro abitato, verso il limitare di una foresta ancora più nera del cielo sovrastante. Mi misi a correre per raggiungerlo, ma dopo una manciata di secondi rallentai il passo, colto da una strana ed improvvisa sensazione. Più accorciavo la distanza tra me e l’anziano viandante, entrando così nel raggio d’azione della luce emessa dalla lanterna, più il mio animo si acquietava e un senso di inspiegabile appagamento s’impossessava di me. Al contempo, sapevo che non avrei potuto, né dovuto, avvicinarmi ulteriormente. Smisi di chiamare quella guida misteriosa, e la seguii in silenzio.


Il grigio pellegrino entrò nel bosco, e così feci anch’io dietro di lui. Mentre i miei piedi si facevano strada tra le rocce e il fogliame, mi sembrava di partecipare a una sorta di solenne processione. Non ci volle molto perché il sentiero cominciasse a inclinarsi verso l’alto, costringendoci ad affrontare una faticosa salita. Capii che eravamo ai piedi di un monte, e che non ci saremmo fermati prima di essere giunti in cima. E così salimmo e salimmo, e il tempo passava senza che riuscissi a quantificarlo. Sul percorso ci imbattemmo in templi e altari di ere remote, ma ancora perfettamente intatti. Quella circostanza mi riportò alla mente la storia di San Benedetto e la sua ascesa a Monte Cassino, l’altura dove fondò il celebre monastero sulle spoglie di un santuario dedicato ad Apollo. “Forse è proprio lui, è Benedetto”, mi dissi, “tornato a consacrare queste terre pagane”. Ma a differenza del monaco il vecchio non abbatté i delubri; al suo passaggio, anzi, essi si trasfiguravano assumendo forme meravigliose che le mie parole non sarebbero capaci di descrivere. Vedevo ogni cosa con chiarezza, ma con la sapienza sentivo crescere anche la superbia. Pensai d’essere un Eletto, un’anima scelta dall’alto per ricevere piena conoscenza delle cose di questo e dell’altro mondo. D’altra parte era ciò che avevo sempre creduto: uguaglianza della carne, elitismo dello spirito.


Come previsto, la nostra anabasi si arrestò solo quando giungemmo alla vetta della montagna. Là non vi era alcun tempio apollineo, nessun culto ancestrale né sacertà ctonie da convertire, solo uno spoglio altopiano roccioso. Il vecchio si era fermato proprio all’orlo di uno strapiombo, al di là del quale ancora non riuscivo a vedere. Poi per la prima volta, egli si voltò verso di me, e di colpo l’appagamento si tramutò in terrore: i suoi occhi divennero mostruose lingue di fuoco, e il suo aspetto prese a fondersi con l’assurdo scenario che si presentava alle sue spalle, e che ora anch’io potevo osservare. Oltre il precipizio, un Abisso infinito, informe e incolore si estendeva su tutta la Terra e anche al di là di essa. Fui assalito dall’orrore per un vuoto ineffabile e incolmabile, per un Caos inenarrabile che rivelava i segreti più reconditi dell’Universo. Il Tutto ed il Nulla. Non ressi lo sguardo incendiario della mia guida, la Verità che quell’Essere mi stava mostrando. Quando il mio delirio giunse al culmine, le forze mi abbandonarono e persi conoscenza.


Al mio risveglio, non mi trovavo più sulla cima del monte. Mi guardai attorno: ero tornato nel sobborgo in declino da cui era partito il mio insolito viaggio. Di fianco a me giaceva una lanterna accesa, e poco più in là un bastone di legno. Sollevandomi da terra, mi accorsi di indossare un pesante manto di un azzurro spento. Presi con me entrambi gli oggetti e cominciai ancora una volta a vagare. Poi udii un tonfo, e guardando nella direzione da cui esso proveniva scorsi il profilo di un giovane uomo. Sembrava spaesato, e si muoveva freneticamente avanti e indietro. Sapevo che mi avrebbe trovato, che mi avrebbe seguito. Sapevo che l’avrei condotto fuori città, nella foresta e poi sulla montagna. Sapevo che avrei cercato di dissuaderlo. Sapevo che non ci sarei riuscito.

Carta dei Tarocchi scelta: L'Eremita




Mauro (@Mauro Rondoni)


L’Arcano Senza Nome

Battito, respiro, battito, respiro…

Il cuore pulsava senza accento, senza spinta. Ne avvertiva il ritmo regolare, anche se demotivato, dalla fronte distesa e ormai addormentata mentre con le dita, si aggrappava al bordo del sedile della sua utilitaria per non sprofondare ancora nell’ignoto.

Battito, respiro, battito, respiro…

Il motore acceso dell’auto girava al minimo bruciando benzina color sangue e pompando all’interno dell’abitacolo azoto, acqua, anidride carbonica e benzene. Una trivella nel pozzo degli inferi. Occhi chiusi al mondo e senza alcun pensiero, ascoltava il rumore metallico delle valvole aprire e richiudere la porta dell’inferno.

Battito, respiro, battito, respiro…

Ancora una volta si trovava davanti alla magia dello specchio. La superficie argentata celava la propria insidia, appariva come la copertina lucente di un lago tranquillo senza onde, calmo e non sembrava essere profondo. Si fece coraggio e così si sporse fino a specchiarsi in quell’acqua tiepida. Dalla profondità di quello stagno riaffiorarono lentamente i riflessi del proprio passato. Tormenti, angosce, frustrazioni e pianti tornarono a galla. Una lacrima scivolò dal suo viso facendo increspare l’acqua ed offuscando quelle visioni che si erano mostrate per un attimo. Si inumidì con la polvere di piombo le labbra secche, poi allungò una mano sulla superficie di quello strano specchio. Voleva calmare le onde e voleva richiamare tutte quelle immagini che erano scomparse sotto i suoi occhi. Si sporse ancora, il braccio teso e le dita della mano si erano allungate al massimo. Ci stava per riuscire, ancora qualche centimetro e le avrebbe toccate… Ma fu soltanto un’illusione. Qualcosa di efferato la prese per le caviglie risucchiandola giù in profondità, verso l’abisso. Aveva gli occhi spalancati sulle proprie mani tese verso l’alto che si dimenavano come anemoni sbattuti dalla corrente. Le dita ondeggiavano nel tentativo disperato di agguantare la luce che velocemente stava svanendo sopra la sua testa. Non riusciva più a respirare, avvertiva soltanto il cuore accelerare le pulsazioni ma i polmoni si erano trasformati in sacchi crivellati dalla ruggine.

Battito… battito… battito… battito…

Avvertiva ancora un effimero contatto con il mondo esterno, i polpastrelli delle dita erano riusciti all’ultimo ad aggrapparsi alla cornice dello specchio. Le unghie tentavano di entrare nella superficie dura ed impenetrabile, i nervi tirati al massimo resistevano alla spinta crudele e feroce. Tuttavia, le forze stavano per esaurirsi, qualche istante ancora ed avrebbe lasciato la presa precipitando verso il fondo. Arrivò un’ondata improvvisa e violenta di mercurio che l’avvolse completamente. Una porzione di argento vivo s’infilò nella sua gola spalancata soffocandole il respiro. Si sentiva ormai domata, spenta, finché non si vomitò l’anima addosso. Riuscì in qualche modo ad afferrare meglio il bordo dello specchio. Strinse occhi e denti concentrando le ultime forze residue riuscendo in qualche modo a sollevarsi. Esausta e sfinita si tirò su boccheggiando, una trota scaraventata al bordo di un lago.

Battito… battito… respiro… battito… respiro…

Ansimava ed il cuore, a fatica, bussava ancora al cancello quasi chiuso della vita. Distesa sulla lastra argentata aprì piano gli occhi, a poco a poco le forme attorno ripresero la precisione dei propri contorni. Li aprì completamente scoprendo dall’altra parte due occhi gialli che la stavano fissando in un silenzio profondo, contemplativo. Si mise ad urlare tremando per lo spavento. Cercò rifugio rannicchiandosi completamente su sé stessa, ma nel vano tentativo di fuggire allo sguardo minaccioso, perse l’equilibrio ricadendo nel lago fermo e colorato di metallo bianco e lucente. Forse fu soltanto un altro incubo, ma Antonella questa volta stava affogando davvero nel proprio specchio. Smise di urlare, socchiuse gli occhi e si distese immaginando l’abisso. Le apparve come un cerchio perfetto racchiuso da una cintura di cuoio. Fin dove l’occhio immaginario riusciva a calarsi, il fondo del cerchio sembrava attraversato da una grossa corda di canapa che si intrecciava fino a formare un gigantesco intrico lucente, una ragnatela di cristallo. Osservava il groviglio perdendosi nel mare gelatinoso della sua mente. La tela aveva imprigionato il brandello di una stella caduta, un astro d’argento che sarebbe servito a proteggerla dallo strazio che la teneva imbrigliata da tempo. Al centro del cerchio una spada dall’elsa imbrattata di sangue. La lama temprata e lucente era servita per darle più coraggio e forza nei giorni difficili, quelli più duri, ora però la spada era deposta e irraggiungibile. Terrorizzata, Antonella prese a fuggire correndo sulla corda sospesa nel vuoto da un capo all’altro del cerchio. Ad ogni incrocio, un salto, un respiro, ed un altro boccone di veleno veniva trangugiato. Dal profondo del nero, l’Arcano Senza Nome digrignò le fauci, aveva fame e osservava lassù quel boccone intriso di sofferenza.

Battito, respiro, battito, battito, respiro…

Di nuovo l’oscurità dentro l’abitacolo a dominare, mentre l’aria lì dentro cominciò a diventare turchese e densa. L’abisso la osservò per un istante, poi si fece avanti falciando da sinistra a destra membra umane giunte in ritardo soccorso. Raggiunse la sua preda, abbracciandola stretta mentre le mani scheletriche le strinsero il collo soffocandola pian piano con il respiro spesso e letale del tubo di scappamento. Antonella si perse nel mare denso di visioni oscure, oscillò per alcuni istanti sugli scogli unti e appuntiti della sua mente torbida poi, si lasciò cadere nel vuoto. Attraversò le nuvole, penetrò la crosta terrestre e attraversò gli abissi, infine, si rialzò disorientata. Si guardò attorno smarrita, senza capire dove fosse arrivata.

“…dove… dove siamo?”.

“Non aver paura, non devi più scappare da nulla e da nessuno perché siamo finalmente giunti a destinazione”. La voce dell’Arcano Senza Nome era calma, profonda e trasmetteva un inaspettato senso di pace.

“Ma… arrivati dove?”.

“Nel luogo in cui sei voluta andare: in fondo al tuo universo. Qui non ci sono più strade per tornare indietro, tantomeno sentieri per andare in nessun altro posto. Niente ormai serve più a niente. Ora sei finalmente libera da tutti e da tutto ciò che ti tormentava”.

Antonella chiuse gli occhi, la bocca si distese in un sorriso placido e si lasciò abbandonare, iniziando finalmente a sognare senza più alcun battito e respiro…


Carta dei Tarocchi scelta: L'Arcano senza nome (La Morte)





Giacomo (@giacomo.pirovano)


SOLO IL PRIMO TEMPO

ovvero

IL PAGGIO DI BASTONI, RETTI DALLA MANO DEL DIAVOLO, ALLA CORTE DELL’ULTIMA IMPERATRICE SENZA NOME

Sono nato nel 1977. 77 dei Talking Heads, Guerre Stellari e gli anni di piombo. Papà è stato ucciso l’anno dopo dai brigatisti di questa città maliziosamente indifferente. 29 anni accesi e vivaci, duri e fallosi[1]. Vivo al quinto piano, nel sottotetto di un anonimo palazzo del primo ’900. Uno sbilenco bilocale dalle travi nude e crepate di vecchiaia, asfissiante come ogni estate. Fuori c’è il solito tumulto del quartiere multietnico e saturo di locali, quella sera esasperato dal collegamento con Berlino a ogni angolo. Esco alle venti, zaino in spalla. Sento il fischio di inizio da una radiolina in mano a un ragazzino che si affretta verso largo Saluzzo, dove c’è bordello. In via Baretti passo davanti a un locale colmo di tifosi e scopro che Cannavaro è entrato duro su Henry. La violenza, anche senza cattiveria, piomba subito, nei primi minuti della partita della vita. Su corso Massimo, un ancora quieto viavai di auto sfreccia nei due sensi armato di bandiere e trombette, vivi colori contro l’appassito Valentino. Sento della prima ammonizione, la prima strigliata, di Zambrotta su Vieira. Sarà stato il quarto o il quinto minuto di vita di quel match. Mi butto nel parco e supero il laghetto degli incontri tra Fellini e Rol. È al settimo minuto di quella partita esistenziale che attendo solo il crepuscolo, seduto ai piedi della statua di Massimo d’Azeglio. Il portafoglio gonfio nella tasca della chiappa destra, il corpo magro e sbilenco a sinistra. Si è soli, feriti per la prima volta in quella partita finale, mentre Zidane sul dischetto ostenta uno pseudo cucchiaio che non può nemmeno essere neutralizzato dal più grande portiere della storia d’Italia. Oltre gli alberi dietro di me sento le folle di San Salvario che si scatenano in un boato di delusione. Inizia la sofferta reazione azzurra.

Sbucano dalle ombre dei leggeri pendii d’erba del parco, non verde come quella dell’Olympiastadion, una decina di fisici secchi e appena definiti: una squadra di calcio dei deserti che mi marca al buio, intorno alla statua. A questi, provenienti da terre d’oltremare, non frega molto dei mondiali di calcio. Il loro capitano è piccolo e ricciuto, uno sguardo bieco ma spento, una serpe sul braccio forse priva di significato. Senza alcun cenno scendono nel campo della vita di strada, nel sottobosco illecito della città, all’incrocio con corso Vittorio. Reagisco a quel gol della solitudine e dell’abbandono seguendoli, prendendo la loro strada. In via Fratelli Calandra la carreggiata si allarga su un parcheggio e su un muro tappezzato di pessimi graffiti. Appassionato e preoccupato, un cinquantenne fuma presso un dehors. Dopo che Thuram ha neutralizzato un minaccioso traversone di Pirlo, è certo che stavolta il Maestro non potrà permettersi di guidare il gioco come nelle precedenti partite. Quella squadra olivastra dei deserti, che aveva appena raccolto dalla statua di D’Azeglio il suo ultimo giocatore, entra in un locale senza insegna pochi metri più avanti. Un luogo nero, appena sfumato dal vago bagliore del bancone di legno e da alcuni papiri dorati alle pareti. Erano immagini bidimensionali di quelle antiche civiltà d’oltremare, delle sabbie e delle volte stellate, invisibili nelle notti delle città eurasiatiche. Occupano tutto il locale: siedono sui divanetti, silenziosi. Prima del nostro arrivo quella sala buia era animata solo da qualche universitario troppo impegnato per dedicarsi a un rito collettivo e popolare. Siedo al bancone e ordino secondo gli accordi. Mentre sorseggio un denso superalcolico rosso da un bicchiere di plastica, uno stretto corridoio al mio fianco incanala appena le voci dei telecronisti. Totti fatica a smarcarsi dall’insidioso gioco di Makélélé e Vieira. È proprio quello lo sconosciuto andito che devo affrontare in quei minuti di reazione. In fondo vedo la porta della toilette. A metà corridoio c’è un piccolo tavolo e un uomo obeso dal viso placido, di quelli che popolano i bar sport di provincia, svaccato su una sedia troppo piccola per lui. Segue la partita da un vecchio 13 pollici con antenna. Faccio sparire velocemente il mio portafoglio gonfio sotto quel tavolino: scivola inghiottito in quel grasso ventre mentre Grosso, a Berlino, fatica a marcare un pericoloso Ribery. Esco dal bagno con più peso sulla schiena. Ritorno in corso Vittorio e passo davanti all’Huntsman Pub circa al 19’. Materazzi segna e il locale esplode: è 1-1 per gli azzurri. Quel gol, quell’effimero scatto d’orgoglio, nella partita dell’esistenza. Proprio mentre le urla, i cori, i fischi e i clacson creano una cacofonia esultante, passo davanti ai vetri spenti di un negozio e mi guardo. Emergono nella mente alcuni versi dei Massimo Volume: A Torino passeggiavamo tra i negozi del centro, tu mi hai detto: «Ho passato vent’anni ignorando di avere un corpo.» Poi è stato come se un’auto entrasse a 180 all’ora dentro una di queste vetrine[2].

Sono già in via Nizza. La percorro divincolandomi tra la folla che intasa il portico. Dai vari locali racimolo qualche informazione su quei minuti di gioco alto azzurro: un cross di Ribery neutralizzato da Materazzi, Toni che porta quasi in vantaggio l’Italia centrando la traversa con un colpo di testa. Accelero nel sudore della calca delusa. Mi sembra di essere quasi in vantaggio pure io su questa esistenza, ma qualcosa mi ferma. Mi distraggo guardando ancora una volta dentro un negozio chiuso e percepisco il riverbero intermittente delle luci blu. La madama non è qui per me, ma le viscere non ci credono. Corro scantonando alla prima traversa e mi infratto di nuovo in quel mio quartiere promiscuo, gentrificato troppo in fretta. Chiudo fuori di me la partita del mondo, il mondo stesso e i suoi entusiasmi, fuori dal portone massiccio del mio anonimo palazzo del primo ’900. Il silenzio è abbinato solo al mio fiato e alla frescura dei quattro piani di scale. Niente ascensore, come da tradizione[3]. Un’ultima rampa e poi un altro andito per quella sera, questo fin troppo familiare. In fondo c’è la porta storta del mio bilocale, la boita, fatta come le piramidi di quelle antiche civiltà. Una casa regale per l’eternità, un minuscolo antro per aprirsi alle vastità del cosmo, altrimenti invisibile nelle egoistiche notti delle città d’Eurasia[4]. È buio. La finestra spalancata che perfora il tetto, coperta dalle serrande scassate, getta dentro quell’angusto prisma triangolare tutto il chiasso del quartiere. Accendo la luce rosa, lynchana, quella sopra il divanetto. Mi ero preso la libertà di non lavare i piatti, fermi nel lavandino davanti a me. La porta a destra della camera da letto è aperta. Sei nuda. Vedo solo la vertigine della vita e del fianco, la tua chioma scura sparsa ovunque come un manto di radici. Sembra quasi voler avvolgere il tuo essere esile. Come in decomposizione su quel materasso, non troppo più bianco della tua pelle, dormi. Vuoi ignorare, come sempre, tutto quello che c’è là fuori. Chiudo piano quella fragile porta che ha già cigolato troppe volte. Estraggo il peso dallo zaino. L’arbitro fischia, è il 45’: conosco solo il primo tempo.

[1] cfr. Wikipedia, Finale del campionato mondiale di calcio 2006 [2] Meglio di uno specchio di Massimo Volume [3] cfr. 𝔾𝕖𝕟𝕖𝕣𝕒𝕥𝕚𝕧𝕖 𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼 #17: Fiume e foglie al quinto piano. [4] Facoltativo: ascoltare, da qui in avanti, i primi minuti di The Last Emperor (Theme) di Ryuichi Sakamoto


Carta dei Tarocchi scelta: Le Stelle



Andrea (@andre_anzi)


“Il Posto Sicuro”



Ansimo, mi fermo. Non ce la faccio più.

L’arco quasi mi scivola di mano, le mie gambe sono legno.

Il Tentacolore mi gorgoglia dietro.

Una mano mi afferra la spalla: Simone. Alza la visiera dell’elmo, ha gli occhi sgranati. «Dari’, ci siamo quasi!»

Il gorgoglio…

Mi volto.

Il Tentacolore, il polpo-ragno peloso e viscido, sovrasta le colonne dei templi del santuario, una palla nera e blu che si staglia contro il sole.

Simone prende fiato. «Non possiamo batterlo. Dobbiamo arrivare all’Altare e fermare la siccità!»

Il Tentacolore si aggrappa con le zampe viscose alle colonne, a destra e sinistra. Pianta le tre proboscidi frontali nei sanpietrini, che al loro contatto si squagliano in uno scrosciare di acqua di mare e veleno che finisce giù, nel nuovo pozzo. Da qualche parte in profondità rimangono solidi. Dal colore terra, diventano prima verdi, poi viola. Il mostro si tende all’indietro.

Deglutisco. «Vuole darsi lo slancio.» Ci catturerà, devo rallentarlo. Incocco una delle frecce speciali, quelle fabbricate dal maestro Obi.

Simone mi fissa. «Lo farai arrabbiare di più e tu non ce la fai a correre!»

Sempre a proteggermi, lui. Chiudo un occhio, tendo la corda e miro al centro dell’ammasso di iridi del Tentacolore. «Altre idee?» Scocco la freccia, velocissima, che si lascia dietro il vuoto.

Il Tentacolore balza, un ammasso puzzolente del banco del pesce in cielo.

Afferro Simone. «Girati!» Chiudo il palmo.

La magia si attiva.

Uno scoppio, un bagliore che cancella le nostre ombre accucciate dalla pietra.

E un urlo terribile.

Mi aspetto che il Tentacolore crolli sul tempio di fronte, ma non succede. Io e Simone ci voltiamo: si è aggrappato ad altre colonne, sta scuotendo il corpo gigante in preda alla confusione.

Simone mi dà una pacca sulla schiena. «Corriamo!»

Il Tentacolore scava nei sanpietrini ed estrae una palla di fango e pietra enorme.

Ce la scaglia contro prima che reagiamo. Nel tragitto, cambia colore almeno tre volte prima di decidersi sul blu elettrico. Io e Simone ci gettiamo a terra. La palla ci passa in mezzo e impatta contro l’ingresso del tempio di Muu. Due colonne coi capitelli di mucca sfarinano calcinacci, si crepano. Crollano.

Simone si rialza a fatica, la corazza gli pesa ‒ gli avevo detto di non equipaggiarsi così! «Non sa chi ha la Collana! Separiamoci, ci vediamo là!» Corre su per una stradina laterale e si perde tra i templi rossi.

Il Tentacolore si sta già riprendendo.

Io mi infilo nel primo vicolo. Fa troppo caldo, le gambe non le sopporto. Al primo bivio svolto a destra.

I turiboli accesi mi scorrono di fianco, i polmoni bruciano.

Il gorgoglio, l’urlo rabbioso del Tentacolore. Aumenta, aumenta…

Una fitta alla testa, devo appoggiarmi al muro.

«Daria… Dove scappi?» La voce abissale del Tentacolore è dentro di me. «È la strada sbagliata…»

«Zitto!» Riprendo a correre. Abbiamo poco tempo.

«Sai che è sbagliata… Torna…»

«No!»

Un boato alle mie spalle, il terreno trema, frammenti di pietra mi picchiano sulla schiena e le cosce. Mi volto. Una palla di fango e roccia si è schiantata in mezzo alla strada. Un’altra arriva dal cielo.

«Daria… Da sola sei nulla… Vieni…»

La palla esplode proprio di fronte a me, mi copro il viso con le braccia, inspiro la nube di polvere che mi tappa la gola. Tossisco e sputo.

«Sei mia…» La voce ora non è più in me.

È davanti.

Il Tentacolore mi fissa coi duemila occhietti. Puzza di pesce impolverato.

Sfioro le piume delle frecce nella faretra.

Un tentacolo fa il giro dietro di me e me la strappa di dosso. Cado in avanti, le mani a terra. «Basta.» Gorgoglia. Avanza. «Torna. Te lo ordino.»

Ho il tentacolo dietro al collo. Un brivido mi rattrappisce la schiena.

Aiuto…

«Lasciala!»

Una mezzaluna argentea. Un tentacolo peloso che si stacca. Un grido di dolore lancinante.

Simone! Da dove è sbucato?

Si pianta tra me e il Tentacolore, la spada in guardia. Mi sogguarda da dietro la spalla, la visiera abbassata. «È ancora con te?»

Mi tasto la tasca dei pantaloni. La Collana della Regina-Mummia è ancora lì. Annuisco.

«Vai! Sei vicina!»

Scatto in piedi. Mi infilo nel viottolo a destra.

«Torna!» Il Tentacolore è furioso.

Ecco l’ingresso del Tempio! È uguale a quello di Osiride, come nella foto!

Simone scalpita dietro di me. Il Tentacolore anche.

Simone lancia la spada a terra e accelera. «Dai, dai!»

Il Tentacolore si aggrappa alle colonne ai lati della strada. Gli crollano addosso! «Puttana! Daria, sei una puttana!»

Saliamo i gradoni, entriamo nell’ombra del tempio.

Ci involiamo verso l’altare. Sta rientrando nel terreno! Prendo la Collana dalla tasca… La appoggio.

Assieme a qualche briciola di patatina.



Il silenzio.

Solo l’ansimare mio e di Simone.

E la penombra della chiesetta diroccata, e i primi bubbolii del temporale.

Simone è chinato, si tiene le ginocchia e butta fuori aria. «Ce-ce l’abbiamo fatta.»

«S-sì.» Che corsa! «Ti ho battuto!»

«Bleee» Simone fa la linguaccia. Poi, va verso l’entrata e appoggia una mano sul portone. La pioggia fuori annaffia il cimitero, la ghiaia, le tombe. «Stiamo al sicuro.»

Lo raggiungo. «Spero duri poco.» Il bastone-spada di Simone è già zuppo in mezzo al selciato.

«Perché? Ti annoi?»

Sorrido.


La tua lapide.

Di notte, non è così inquietante.

Guardo a destra la chiesetta diroccata tra i mausolei. «E poi c’è il nostro posto sicuro, ricordi?»

Il telefono mi vibra in tasca. Lo prendo. È Marco, figurati.

La chiamata cade. Nella tendina c’è l’inizio dell’ultimo messaggio: “Sei proprio una putt-”.

Spengo.

Simone sorride nella foto, il viso di vent’anni fa.

«Fossimo rimasti là, al posto sicuro, ora saresti con me.» Accarezzo il marmo gelido. «Quello però era il nostro. Io devo cercare il mio. Tornerò!»

I miei passi sulla ghiaia. I cerini elettrici dei loculi mi guidano al cancello. Salgo in macchina.

Poco più avanti, il bivio.

A destra torno da lui, dalla sua voce…

A sinistra, chissà.

Accendo, ingrano la prima. La radio riprende dal ritornello di Creep.

Metto la freccia a sinistra.

Una lacrima.

Carta dei Tarocchi scelta: L'Arcano senza nome (La Morte)


Efed (@the_efed)


Marina non ha mai sentito parlare dei tarocchi. Un giorno un'amica le regala un libro di Jodorowsky ed è costretta a scoprirne di più. Però della cosa inizialmente non può fregargliene nulla. Tant’è che inizialmente pensa di ignorare l’argomento.

Marina cammina per le stradine del centro di Ovada, vie antiche scavate tra gli edifici che mostrano con genuinità tutta la loro età.

Ma Marina no, lei non mostra la sua età, ha 28 anni ma conserva la stessa curiosità e lo stesso spirito ribelle di una sedicenne. Sta discutendo con un'amica di musica, come sempre quando esce la sera per farsi una birra al Moon Pub.

Marina porta i capelli in stile moda punk del 1977 anche se siamo nel 2023, ha un look insolito seppur ordinario.

Ad un certo punto, nel bel mezzo di una pesante critica sull’ultimo album dei Clash, Marina incrocia lo sguardo curioso e sorpreso di uno strano tizio che involontariamente ha ascoltato un frammento del suo discorso appassionato.

Prosegue il discorso come niente fosse ma dentro di sé inizia a pensare di avere una certa influenza sugli altri. Si autoconvince di essere l’imperatrice dell’alto Monferrato e della Liguria.

Il tizio intanto ha abbandonato la città di Ovada e ha deciso di scrivere un'ultima poesia, prima di addormentarsi, ispirandosi a quella ragazza insolita….


oh bergamotto, profumi d'alieno

Imperatrice, sei tiara di rami

Sopra dune di aridi umani

Apparendo, ai complotti dai freno


Nel tuo scudo mi riscopro terreno

gattonando giù nel mondo dei cani

costruisco dei soppalchi mentali

E in poter tuo risorgo, veleno!


Al fiorir del tuo umore giocondo,

mi ritrovo a seguir un'essenza

Narcisando tra le nebbie fumanti


Dentro fogli leggeri e sonanti

Annerisco la mia grigia parvenza

Lucidando il tuo cuore rotondo.



Carta dei Tarocchi scelta: L'Imperatrice




𝐷𝜇𝜌𝑙𝜀𝜘 𝜌𝜎𝜀𝜏𝜄𝑐𝛼


9 ottobre 2023 - 19 ottobre 2023




0 commenti

Post recenti

Mostra tutti

𝟛

bottom of page